Nonostante le similitudini con le rivolte di 56 anni fa, i giovani che protestano nelle università Usa stanno portando avanti una battaglia nuova. Con un nemico dichiarato: Donald Trump
In elezioni dall’esito così incerto come le presidenziali del prossimo novembre, qualsiasi mossa dei candidati può fare la differenza. Ne avrà tenuto sicuramente conto il presidente Joe Biden quando ha dichiarato, durante il clou delle occupazioni contro la guerra a Gaza dilagate nei campus universitari statunitensi, che protestare è un diritto, ma che l’ordine deve prevalere, aggiungendo che le manifestazioni messe in atto dagli studenti universitari di tutto il Paese non hanno avuto alcuna influenza sulla sua posizione in merito al conflitto in corso. Non è cambiato niente, dunque, sembra dire il presidente. Eppure, il mondo della politica è in subbuglio, circondato da paragoni tra questa ondata di proteste nei campus e quelle che ci furono nel 1968 contro la guerra in Vietnam. Le coincidenze, anche banali, tra queste elezioni e quelle di 56 anni fa, ci sono: si voterà lo stesso giorno (il 5 novembre) e la Convention del Partito democratico si terrà nella stessa città (Chicago). Dettagli che non sono sfuggiti alla stampa internazionale, oltre che americana, e men che meno a storici e analisti politici. Non bisogna dimenticarsi, però, che ogni movimento ha una sua specificità, senza con questo volerne negare l’eredità storica. Stavolta, le motivazioni che spingono i giovani a protestare anche a costo del loro futuro sono simili, ma diverse: rifiutano la guerra a Gaza, un conflitto che sta colpendo duramente un intero popolo, quello palestinese, che non è sinonimo di Hamas. Non è una delle tante guerre che ci sono nel mondo, insomma, ma rappresenta qualcosa per questi ragazzi, un po’ come quando il movimento antirazzista Black Lives Matter risorse dopo l’omicidio di George Floyd nel maggio 2020. Rifiutano così tanto il coinvolgimento, anche indiretto, in questo conflitto che tra le richieste chiave delle loro proteste c’è la sospensione dei finanziamenti elargiti alle loro università di lusso da imprese e aziende direttamente coinvolte nella guerra a Gaza, che vengono recepiti oltre le rette cospicue che provengono dagli studenti. Un rifiuto che è stato ribadito il 14 maggio durante la cerimonia delle lauree alla Columbia University di New York, quando non sono mancati atti di dissenso pacifico tra gli studenti che ricevevano i diplomi. In particolare, a colpire è il discorso di commiato tenuto da Tamara Rasamny, tra gli arrestati (e poi rilasciati) durante l’occupazione del campus, che racconta come le proteste degli studenti abbiano spesso portato a grandi cambiamenti politici e sociali, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Rasamny ha concluso citando le parole della poetessa afroamericana Maya Angelou: «Nessuno può essere libero finché non lo saremo tutti» e chiedendo il cessate il fuoco e la liberazione di ostaggi e prigionieri politici, sia israeliani che palestinesi.

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