Lo scrittore ha insegnato a Rebibbia per trent’anni e nei suoi libri ha raccontato il sistema penitenziario. «La rieducazione e la risocializzazione dei detenuti? L’istituzione non se ne occupa. Non c’è alcun scambio tra dentro e fuori»
«Per avere un pensiero critico bisognerebbe prima conoscere, sapere, vedere per capire». A parlare è uno tra i più attivi intellettuali engagés italiani: Edoardo Albinati. Scrittore - premio Strega con La scuola cattolica (Rizzoli, 2016) -, sceneggiatore - Il racconto dei racconti insieme a Matteo Garrone o Rapito con Marco Bellocchio - e insegnante per circa trent’anni nel carcere romano di Rebibbia. La sua lunga esperienza tra i detenuti attraversa anche i suoi libri, come Maggio selvaggio (Rizzoli) per esempio, ma Albinati esce anche fuori da quelle mura, alla ricerca della verità indagando il nostro tempo come atto di responsabilità e impegno civile. Come il carcere, così esplora infatti anche la situazione altrettanto complessa delle persone migranti con la loro uguale condizione di esclusi, la cui libertà è soppressa, i diritti violati. E lo fa da reporter, percorrendo parte della rotta balcanica che porta le persone in Europa oppure andando in Niger, crocevia non solo di profughi, ma anche di armi, di capitali occidentali e cinesi, di militari, fino all’uranio.
Edoardo Albinati, scrittori, artisti e associazioni si sono occupati di promuovere l’arte all’interno delle carceri attraverso progetti, laboratori, incontri. In base alla sua esperienza, l’arte quale contributo può dare ai detenuti?
Bisogna partire dal fatto un po’ desolante che in carcere attività di qualsiasi genere che permettano di rendere un po’ più permeabile la detenzione sono molto poche. Il vero problema della realtà carceraria è che è un mondo chiuso, extraterritoriale, dove invece dovrebbero essere favoriti gli scambi dal dentro al fuori. Non esiste nulla di istituzionale che sia rieducazione o risocializzazione e queste sono comunque sempre affidate a singole persone o associazioni. Nel carcere di Rebibbia, che è quello che ho conosciuto meglio avendoci insegnato molto a lungo, il teatro, per esempio, era molto importante ed era affidato al regista Fabio Cavalli di cui ricordo una favolosa rappresentazione de La tempesta di Shakespeare. Uno spettacolo con delle intuizioni notevoli degli attori, alcuni dei quali sono diventati veri professionisti una volta usciti dal carcere. Nella mia modesta posizione di insegnante carcerario, ho pensato più alla grammatica, alla lingua, alla letteratura. Ecco, non posso dire che quello che facevo lì fosse un insegnamento creativo. Era scuola, una delle poche cose che serve quantomeno a riscattare il tempo trascorso lì dentro che altrimenti è tempo morto, perduto.
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login