La corsa per la Casa Bianca della candidata dem contro Trump non si presenta facile. Ma per la prima volta c’è entusiasmo nel partito, nonostante alcune posizioni di Harris che guardano
al centro. È una sfida storica: una donna nera e sud-asiatica che si oppone al tycoon repubblicano e al suo progetto reazionario
CHICAGO - «She did good», ci dice una ragazza afroamericana sui trent’anni mentre si sistema la borsa sulla spalla e se ne va dalla curva del Soldier Field, lo stadio del football di Chicago, dove l’associazione GoChiLife ha allestito un megaschermo per seguire in diretta il discorso di Kamala Harris alla Convention democratica. «È stata brava», ed è realmente soddisfatta di quello che ha visto.
In pochissime settimane, Harris è riuscita a riportare entusiasmo e gioia tra gli elettori dem, tutto quello che era mancato finché il presidente Biden era il candidato del partito. Una situazione che avrebbe potuto compromettere seriamente l’esito del voto del 5 novembre. E pensare che fino al ritiro di Joe Biden, la vicepresidente Kamala Harris era considerata l’anello debole di questa amministrazione, con indici di gradimento inferiori ai già bassi consensi del presidente.
Se è vero che c’è stato tanto entusiasmo, dentro e fuori la Convention, c’è anche chi ha contestato sia la candidatura di Harris, sia l’amministrazione dell’attuale presidente Joe Biden. Ci sono state diverse manifestazioni in concomitanza dell’evento politico più importante del Partito democratico, la più grande organizzata il giorno dell’apertura. Il tema erano la Palestina libera e la fine della guerra a Gaza. C’erano anche alcuni ragazzi delle proteste nelle università, tra cui una ragazza di Chicago (Illinois) e una di Denver (Colorado), che ci hanno raccontato come nei loro atenei la repressione della protesta sia stata abbastanza leggera, a differenza di Stati repubblicani come la Florida, dove ci hanno detto essere stati molto più severi con gli studenti che occupavano i campus. I manifestanti di lunedì 19 agosto non solo non sono entusiasti, ma probabilmente si asterranno completamente dal voto. I loro slogan sono «genocide Joe» e «killer Kamala», ma sono critici anche nei confronti di Trump. A un certo punto qualcuno sfonda le prime transenne che circondano il perimetro dello United Center, il palazzetto del basket che ospita la Convention, e la polizia lo blocca senza arrivare alla violenza. Il giorno prima c’era stata un’altra manifestazione, stavolta a tema diritti riproduttivi e aborto, e lì il clima era leggermente più fiducioso. Eppure, anche tra loro c’è chi non fa conto più di tanto sulla politica. È il caso di Jessica, per esempio, una giovane attivista afro-americana dell’associazione Plan C che sull’accesso all’interruzione di gravidanza ci dice che secondo lei è qualcosa che deve essere gestito dalle persone, dalla comunità, perché sul governo non si può fare affidamento.
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login