Non siamo diventati tutti ceto medio, come vorrebbe certa narrazione neoliberista. In Italia ci sono milioni di operai nell’industria e lavoratori salariati nei servizi. Il saggio di Pier Giorgio Ardeni getta una luce su di loro. Per una prospettiva politica a sinistra
Il lavoro di Pier Giorgio Ardeni su Le classi sociali in Italia oggi, pubblicato recentemente da Laterza, è un libro importante. Mostra in maniera chiara e convincente come il passaggio nella discussione pubblica dal tema delle classi a quello delle stratificazioni sociali sia stato il portato della vittoria ideologica e politica della controffensiva neoliberista degli anni Ottanta nella società, nella politica e nelle stesse scienze sociali. Causa ed effetto di quella vittoria molto di più che il risultato di un cambiamento e complessificazione della struttura delle società liberali a capitalismo democratico dell’Occidente. Il “siamo tutti classe media” di Tony Blair e dell’Ulivismo mondiale era diretta filiazione del thatcheriano “la società non esiste, esistono solo gli individui”: aveva ben ragione nella sostanza la Lady di ferro a ritenere il concetto di classe un elemento divisivo e “comunista”. Se le classi esistono la società non è un corpo indifferenziato accomunato dalla stessa aspirazione ai consumi ed agli stili di vita borghesi, ma una realtà segnata in maniera strutturale da linee di frattura interne irriducibili, potenzialmente organizzabili ed in lotta permanente. La crisi del 2008 e la relativa stagnazione nell’Occidente ha scosso ed incrinato le narrazioni apologetiche e consolatorie che vedevano nella fine della storia e nella naturalizzazione del capitalismo un elemento indiscutibile e largamente accettato e condiviso. Crisi, recessione e la stessa pandemia hanno disvelato che la globalizzazione neoliberista non aveva garantito a tutti i soggetti sociali una crescita condivisa, la riduzione delle diseguaglianze di opportunità e reddito e l’affrancamento definitivo dai bisogni materiali (seppur a scapito della maggioranza delle popolazioni e dei Paesi del mondo).
La crescita delle diseguaglianze sociali, a partire da salari e redditi, a fronte della iperfinanziarizzazione dell’economia e della vita, riportano la discussione - con caratteri di massa - sulla materialità delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice, direttamente salariata, autonoma ma economicamente dipendente, precaria strutturalmente e disoccupata o irretita stabilmente nelle catene dell’economia informale, grigia, al nero o direttamente para schiavistica. La storia non è affatto finita e il ritorno potenziale della politica balugina di nuovo nella crudezza della Terza guerra mondiale a pezzi. In questa nuova fase riproporre la centralità delle classi sociali nella ricerca sociologica e nel dibattito pubblico assume un significato di radicale politicità. Se ne è mostrato ben consapevole il giornale di Confindustria, Il Sole 24Ore, che ha dedicato al saggio di Ardeni una stroncatura che suona come un esorcizzare una paura - un timore - che sembra serpeggiare nelle classi dominanti. Una critica tutta impressionistica quella del vicedirettore: «la lotta di classe [che] rest[erebbe] in bianco e nero», come un film o un giornale degli Anni Sessanta, quando invece «alza[ndo] lo sguardo [ci sarebbero] i colori». Colori che per il lavoro salariato semplicemente, oggettivamente, statisticamente, non ci sono.
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