Pressoché nessuno parla dei referendum su lavoro e cittadinanza che andremo a votare l’8 e 9 giugno. Nei media mainstream, servizio pubblico in testa, lo spazio è residuale e nessuna informazione istituzionale spiega di cosa trattino i quesiti e come si vota. Auspico che la comunicazione si intensifichi avvicinandosi alle date del referendum, nel frattempo ogni spazio di divulgazione è oro e queste mie righe su Left sono un’opportunità preziosa della quale sono grata. Come prima cosa non voglio compiere un errore che spesso ho fatto in questi anni di lotta per cambiare la Legge 91/92, ovvero dare per scontato che tutt*, in particolare chi nasce italian*, la conosca e ne comprenda i meccanismi che riproducono, ormai da più di trent’anni, discriminazioni e ingiustizie insopportabili verso centinaia di migliaia di persone nate o cresciute in Italia. Quindi alcune coordinate spazio temporali sono d’obbligo. La 91/92 viene approvata il 5 febbraio 1992, l’allora ministro degli Esteri Andreotti presentò il testo nel dicembre 1988. Prima di questa legge le regole risalivano al codice civile del 1865 e alla L.555 del 1912.
Tutte condividono lo stesso impianto, quello fondato sullo ius sanguinis, sull’italianità per discendenza, principio familistico che sovrasta tutti gli altri e che determina e afferma il privilegio secondo cui se si ha un trisavolo italiano si può richiedere la cittadinanza italiana anche se non si possiede nessun legame reale con il Paese; non sono pregiudizialmente contro lo ius sanguinis, ma lo concepisco solo in coesistenza con tutti gli altri “ius”.
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