Avremmo voluto intitolarla “I nostri luoghi”, “Il nostro mondo”, o qualcosa di simile. Avremmo voluto che fin dal titolo apparissero chiare quelle che erano le nostre visioni sentimentali legate alla mostra a cui stavamo pensando: una sensazione di appartenenza, di un vissuto comune, di sorprese e di aspettative che in fondo ci appartenevano; quello che emergeva sempre più forte in noi era, insomma, come un bisogno di coinvolgimento con le vicende degli artisti che avevamo intenzione di raccontare. Poi è venuto fuori un titolo più moderno, più diretto, più chiaro, forse più parlante ed efficace, a stare ai consigli di chi si intende di comunicazione; un titolo, Provincia Novecento, Arte a Empoli 1925-1960 (nell’Antico ospedale San Giuseppe fino al 15 febbraio, curata da Belinda Bitossi, Marco Campigli, Cristina Gelli e David Parri, ndr) anche più centrato per quelle che in fondo erano le nostre più riposte ambizioni come curatori perché quello che volevamo passasse nei futuri visitatori non era soltanto un impulso emotivo, ma la percezione fisica di un mondo che quasi si sarebbe potuto toccare se solo fossimo riusciti a sporgersi un po’ di più, a trovare il modo di allungarsi, o solo di ridurre, anche di poco, la distanza tra generazioni.
Sarebbe stato sufficiente essersi accorti prima del valore struggente delle vicende artistiche che avevano attraversato Empoli intorno al secondo quarto del Novecento. E ripercorrerle, quelle vicende, voleva dire accorgersi che esse si erano nutrite degli stessi paesaggi, in cui le strade, le case, la gente costituivano uno sfondo simile; e che quelle piccole storie raccontavano vite che potevano accendersi di emozioni a guardarsi intorno, riempirsi di stupore, sognare e, infine, coltivare aspirazioni nei confronti di un mondo che si apriva con gli stimoli continui e inaspettati che provenivano dalla scuola.
Due luoghi stanno, infatti, all’inizio di questa storia. Il primo è una piccola rimessa che, in un incredibile slancio di comprensione e di affetto, Ettore Maestrelli aveva permesso al figlio Mario di utilizzare per dipingere. Ettore faceva il muratore e si era da poco trasferito con la famiglia a Empoli da Fontanella, allora poche Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivistaQuesto articolo è riservato agli abbonati
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