Mentre alcune vallate del deserto di Atacama si stanno tingendo di colore per una inaspettata e leggerissima fioritura dovuta al fenomeno climatico del Niño, quello che in realtà è il luogo più arido della terra ci trascina, con le sue testimonianze rupestri, in una seducente riscoperta del primo affacciarsi umano sul pianeta.
Ci troviamo in Cile, accolti dalla municipalità di Santiago, per delle ricerche in comune con l’università statale sui caratteri delle culture costruttive locali, e non possiamo dimenticare la regione del Norte Grande che ospita il celeberrimo deserto di Atacama, luogo di primitiva bellezza, sorta di altopiano compreso tra due svettanti catene montuose costellate di vulcani, che deve a questa insolita protezione la sua estrema aridità, ma che ha sempre ospitato segmenti di popolazioni coraggiose e di cultura raffinata.
Il Cile è un incredibile territorio che offre, in una strettissima striscia di suolo abitabile, una gamma cangiante di situazioni climatiche e ambientali da lasciare senza fiato. Si passa dalle regioni preantartiche della Terra del Fuoco culminanti nel capo Horn alle regioni nordiche (e calde) a cavallo del tropico del Capricorno. L’orografia del paese è già un documento di identità: il corrugarsi in Cordigliera della crosta sudamericana, un tempo sommersa, sotto la spinta formidabile della placca oceanica ha generato un enclave protetta ad est dalla catena andina (cime sui 6000 metri) e limitata ad ovest dal Pacifico: nel mezzo una esigua fascia (mediamente larga poco più di un centinaio di chilometri ma allungata ben oltre i 4000) dove si può incontrare di tutto, dal deserto assoluto ai ghiacciai perenni, passando dai lama ai pinguini. Qui quella specie di Homo chiamata sapiens è arrivata assai tardi, passando dallo stretto di Bering, all’epoca percorribile, e poi scendendo velocemente a sud colonizzando tutte le Americhe. Siamo agli esordi del periodo neolitico a ridosso dell’ultima glaciazione (intorno ai 13.000 anni fa) e gli esseri che ora possiamo chiamare umani si erano già distinti per la loro instancabile mobilità che li aveva spinti, partendo dall’Africa, in Asia, Europa ed Oceania. Cosa fanno i sapiens in America? Mentre alcuni aspetti del modo di vivere della nostra specie sono in qualche misura conoscibili grazie ai rinvenimenti archeologici per scavo (dati anatomici, utensili, vasellame, dieta, sepolture, malattie..) il costume originale e tipico di questo particolare homo, che, va detto con chiarezza, lo distingue da tutti gli altri predecessori estinti, cioè la sua dedizione assoluta alla rappresentazione, non è facilmente documentabile se non in particolari situazioni ambientali (grotte sigillate, cunicoli) o climatiche che consentono una permanenza nel tempo delle opere. Questo è il banale motivo per cui i ritrovamenti sono così scarsi e questa la ragione dell’importanza delle regioni desertiche quali uniche aree museali della preistoria. Atacama è un altro dei rari siti rupestri che consentono al nostro sguardo di attraversare il tempo e collocarci in prima fila nel teatro delle origini.
Lungo il corso degli antichi fiumi Loa e Rio Salado, ad una quota compresa tra i 3000 e 4000 metri s.l.m., si raggruppano le località a maggior densità di arte rupestre, ma, purtroppo per noi, non sono facilmente identificabili nel groviglio di dune, anfratti, scisti e pinnacoli che disegnano un paesaggio lunare, totalmente inanimato. Ci salva il sito di Yerbas Buenas isolato grumo roccioso nel silenzio di una distesa di sabbia, interrotta da qualche coraggioso cactus, che ci offre una gamma commovente di incisioni, centinaia, appoggiate sulle lisce superfici di una pietra modellata dalla natura in forme decisamente abitabili. Prevalgono le rappresentazioni animali, cosa del resto tipica di questo periodo ovunque nel mondo, ma esse, come avemmo modo di sottolineare nella più antica enclave portoghese di Foz Côa, sono sempre un pretesto per un’interrogazione nascosta sul mondo umano. Animali fantastici scolpiti con raffinatezza fino a disegnarne la cangiante pelliccia (El dragon de dos cabezas), fenicotteri ripresi in un gruppo tenero di famiglia mentre accudiscono i piccoli, sequenze di lama colti nel movimento della corsa, infine il pensiero che maggiormente dovette intrigarli espresso attraverso la volpe con il piccolo in pancia o il profilo dell’alpaca gravida. Eccezionale un’intera parete dedicata ad un’assemblea di quegli interpreti dello spirito del tempo e dello stare al mondo (o qui, più prosaicamente, i conoscitori delle erbe benefiche che danno il nome al sito) che sono le figure che oggi vengono chiamate sciamaniche. Purtroppo le pitture in ocra del Rio Salado relative a immagini umane stilizzate di cui abbiamo letto in alcuni articoli specialistici ci sfuggiranno per colpa di un guado rischioso e mal riuscito che imprigiona, e in parte sommerge, la nostra vettura (poi salvata da generosi minatori indios).
Si tratta senza dubbio di un intero mondo di pensieri, ora acerbi ora struggenti, che si appoggiano ad un linguaggio per immagini di incantevole raffinatezza. E qui viene il punto: l’umanità, ovunque nel mondo, da quando compare con quella fisionomia originale e sconvolgente di specie dotata di immaginazione e capace di ribellarsi alla crudeltà della natura, non può esimersi dall’esprimersi attraverso toccanti rappresentazioni, riflessioni e racconti fatti solo di linee e colori. Sempre e ovunque, perché si tratta della sua identità. Le rocce e le balze illustrate ci dicono senza mediazioni della qualità essenziale della specie nuova. Ma chi è questo personaggio che è andato ben oltre la scheggiatura delle selci ed ha una mente capace di sognare (anche ad occhi aperti)? Non possiamo con certezza datare il momento di questa apparizione (i più antichi ritrovamenti di prodotti d’arte risalgono a 80.000 anni fa, a Blombos) ma dobbiamo ricordare che il sapiens ha circa 150-200.000 anni e che quanto rinvenuto non è che la minima parte di un patrimonio vastissimo in gran parte perduto a causa dell’azione del tempo.
Perché tutto questo è importante (oltre all’interesse per l’arte in sé)? Perché, appunto, ci dice della nostra identità (e delle sue origini). Questa non si definisce all’improvviso con le arguzie del logos bensì esiste da molte decine di millenni precedenti quando uomini, e molto più probabilmente donne, lenivano gli affanni del vivere con i loro straordinari affreschi pittorici perché avevano una mente, ed un rapporto con l’ambiente, mai visti prima. Ma che forma di pensiero era il loro? Semplice: era un pensare per immagini, un sentire carico di emozione, i cui esiti relazionali potevano tradursi in gesti, suoni e figurazioni. Di nuovo questo banale interrogativo ci ricorda che l’umanità non ha avuto bisogno di scrivere e di articolare un linguaggio verbale forbito per essere. Il tracciato dell’evoluzione sul pianeta testimonia di una lunghissima stagione, peraltro fondamentalmente non guerresca, caratterizzata da pensieri e comunicazioni affidati ad un mondo che non esiteremmo a chiamare prerazionale. Sarebbe interessante capire perché questa fase fondativa sia stata poi cancellata e vilipesa, certamente dimenticata. Forse perché dimostra, nel suo umanissimo svolgersi, l’inconsistenza delle ideologie basate sulla presenza del male radicale nell’uomo? E non possiamo a questo punto sfuggire al fascino della teorizzazione di Fagioli quando, anche su queste pagine, ci ha ricordato la similitudine col primo anno di vita del bambino, fatto di immagini e affetti senza coscienza. Il nesso è stringente: negare, cancellare il bambino è cancellare l’origine stessa dell’uomo. Certo impervio è il cammino che può portare alla comprensione di questa stagione umana in cui la forza dirompente del pensiero logico basato sulla percezione non ha del tutto ucciso l’ingenuità e la sensibilità primitive sacrificandole sull’altare della sicurezza e del progresso tecnico. Ed è altrettanto difficile immaginare come vivessero quegli uomini e quelle donne quando primitivo, e non decisivo e strutturato, era il linguaggio; quando, per seguire sempre e inevitabilmente Fagioli, forse già si delineava una diseguaglianza nel privilegiare, nella veglia, per l’uomo le caratteristiche di forza e lucidità utili per la sopravvivenza, mentre la donna, vera custode dell’identità di specie, poteva dedicarsi all’accudimento empatico della prole e a coltivare le qualità espressive e artistiche di cui poi sarà totalmente espropriata. È una ricerca affascinante che potrebbe cambiare il nostro destino: non sarebbe il momento di porla al centro dell’interesse di tutti?
Il reportage con testo e foto di Ugo Tonietti è stato pubblicato su Left del 6 maggio 2017