Casa, documenti, contratto: per i braccianti che lavorano nelle campagne italiane spesso non sono solo diritti, ma questioni di vita o di morte. La pars construens della legge anti caporalato dovrebbe occuparsi anche di questi aspetti. Ma ancora giace inattuata

Sottoposti a turni estenuanti, senza possibilità di nutrirsi. Lasciati privi di acqua potabile, solo con quella del pozzo. Retribuiti intorno ai cinque euro l’ora, per otto ore di lavoro al giorno. Sotto al solleone. E per giunta filmati, per registrare eventuali “inadempienze”, che implicavano una decurtazione della paga.
Le forze dell’ordine hanno descritto così i soprusi che erano costretti a subire 150 braccianti migranti nei terreni del Foggiano e in quelli del vicino comune molisano di Campomarino, in provincia di Campobasso. Con un blitz, alcuni giorni fa, sono state arrestate sette persone considerate responsabili di questi abusi – tra gli imprenditori agricoli delle cinque aziende interessate e un caporale – accusate di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. I braccianti venivano reclutati dal caporale nei ghetti di Borgo Mezzanone e nel Gran ghetto di Rignano, dove tuttora sopravvivono migliaia di persone che lavorano nei campi del Foggiano.

Le indagini sono partite in seguito alla denuncia sporta nel marzo dello scorso anno da due lavoratori africani. Ma quella dei carabinieri di San Severo è solo una delle operazioni di questo tipo compiute negli ultimi mesi, dal Nord al Sud del Paese. Da Treviso a Gioia Tauro, da Latina a Caserta. Segnali importanti, che testimoniano una parziale efficacia della legge n.199 del 2016 contro il caporalato, che ha reso senza dubbio più semplice per forze di polizia e magistratura reprimere lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Ma l’altra parte della norma, la pars construens, quella che avrebbe dovuto prevenire gli illeciti e promuovere filiere produttive pulite, dagli spazio e restituirgli valore, resta quasi del tutto inattuata. Esiste, certo, ma solamente sulla carta.

È un mantra che su Left ripetiamo da anni, e che di recente è stato ribadito nel documento finale dell’indagine sul caporalato avviata nel 2019 dalle commissioni Lavoro e Agricoltura della Camera: la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, nata nel 2015 e contemplata nella legge anti caporalato, sventolata da anni come lo strumento principe per premiare le aziende che lavorano nella legalità, è un fallimento pressoché totale. Una disfatta, così come lo sono le sue “Sezioni territoriali”.
La Rete permette alle aziende agricole di registrarsi ad un network di realtà virtuose che si autocertificano “caporalato free”. Il network si chiama appunto “Rete del lavoro agricolo di qualità” e per iscriversi occorre dimostrare di essere a posto col fisco, di non avere precedenti per sfruttamento del lavoro, di rispettare i contratti. L’obiettivo, in teoria, è quello di intervenire sugli squilibri della filiera produttiva, valorizzando l’agricoltura sana. A coordinare i lavori della Rete c’è una cabina di regia presieduta dall’Inps, a cui partecipano diverse realtà: ministeri, sindacati, organizzazioni di categoria. Quella che…


L’articolo prosegue su Left del 25 giugno – 1 luglio 2021

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