Il museo non solo come luogo di conservazione, ma anche come centro di ricerca, luogo di dibattito pubblico. Di questo tema il direttore del Museo egizio di Torino, Christian Greco, parla alla Biennale tecnologia l’11 novembre in conferenza e in dialogo con Francesco Guglieri, scrittore e editor di Einaudi (che interviene sulla funzione pubblica delle biblioteche). L’occasione è l’uscita di due volumi Treccani: Museo e Biblioteca, di cui Greco e Guglieri firmano le introduzioni.
Direttore Greco, alle origini del museo troviamo, come lei scrive, il Museion di Alessandria d’Egitto che fu anche luogo di incontro fra intellettuali. Un esempio a cui ancora oggi ispirarsi?
Se ci interroghiamo sull’ontologia del museo contemporaneo dobbiamo tornare lì, al Museion, un modello che prima di approdare ad Alessandria fu sperimentato da Atene. Era il luogo pensato da Aristotele in cui studenti ed eruditi si incontravano, discutevano di tutto ciò di cui si occupavano le muse. Non sappiamo ancora se in quel luogo ci fossero anche dei naturalia, degli oggetti che lui aveva raccolto nelle Cicladi. Ciò che sappiamo è che quell’esempio di ricerca e di dialogo fu alla base del modello avanzato proposto da Tolomeo I che dette vita al Museion di Alessandria, che sorgeva vicino alla biblioteca e metteva al centro la ricerca. Se oggi ci interroghiamo su quale possa essere la funzione del museo dobbiamo ripartire da lì per trovare la risposta.
C’è un nesso con la nuova idea di museo formulata da Icom di recente a Praga?
La proposta di Icom comincia con la parola ricerca e termina con la parola conoscenza. Il museo è ancora oggi il luogo per conservare il passato ma si deve innovare. Direi di più: non è il luogo che conserva passivamente la cultura materiale lasciata dalle generazioni precedenti ma crea la memoria culturale, generazione dopo generazione. Non è solo lo spazio in cui la società demanda di conservare la memoria ma è il luogo dove costruirla. Il museo dovrebbe cercare le chiavi epistemologiche per avvicinarci sempre di più alla comprensione del passato e tutto questo è realizzabile solo attraverso un serio impegno di ricerca.
Accessibilità, inclusione, sostenibilità sono parole chiave del museo del futuro?
Certo. Il lavoro in questo caso non deve riguardare solo i temi disciplinari ma avere uno sguardo più ampio. Un esempio? Nei grandi musei anglosassoni ci sono figure diverse e sempre nuove che lo arricchiscono: sociologi, filosofi ecc. Il museo non può essere muto rispetto alle istanze e alle domande della società. Se è l’istituzione a cui la società demanda il ruolo di costruire e custodire la memoria per le generazioni a venire, va detto anche che la memoria non è costrutto astratto, viene alimentata da noi che siamo figli del nostro tempo. In questo senso come professionisti che lavorano nei musei dobbiamo raccogliere tutte le istanze che vengono dalla società e includerle nella nostra narrazione. Dobbiamo creare un’agorà che condivide la conoscenza, luogo davvero di dialogo, di incontro.
E dunque il museo può essere anche un prezioso strumento per far crescere una società democratica, plurale e multiculturale, aiutando a superare pregiudizi?
Il museo è a disposizione di tutti i residenti. A me non piace usare termini come autoctoni e immigrati. Siamo tutti residenti temporanei di territori che prendiamo in prestito dalle generazioni precedenti e restituiamo a quelle future. Siamo residenti temporanei in un determinato posto. E quindi il museo non può che essere un luogo di inclusione che avvicina alle opere del passato. Ma deve essere anche il crocevia dove il passato incontra il futuro. E deve essere in dialogo con tutti gli attori del presente.
Il British Museum e la National Gallery hanno fatto scelte molto radicali puntando sulla funzione pubblica del museo. Rappresentano un modello imitabile? Di questo lei ha scritto in varie occasioni, ricordiamo per esempio il suo recente Le memorie del futuro, con Evelina Christillin per Einaudi.
È un modello che mi piacerebbe molto imitare, vorrei arrivare a una fruizione aperta a tutti e gratuita del museo. È una strada in cui credo molto. Il progetto sarebbe realizzare un museo aperto a tutti e gratis per quanto riguarda le collezioni di cui è custode come magazzino della memoria materiale e che al contempo offra una serie di servizi culturali a pagamento che amplino la ricerca e permettano di pagare il lavoro dei ricercatori. Per arrivare a questo obiettivo serve il lavoro di chi cerca finanziamenti. A fronte del venir meno di introiti dei biglietti occorre pensare come possiamo sopperire, dobbiamo lavorare moltissimo anche sul senso di restituzione che i cittadini possono dare. Il punto è che il patrimonio non appartiene ai cittadini, ma appartiene a tutti. Paradossalmente più il museo riuscirà a radicarsi nella società, più la sostenibilità economica per un’apertura gratuita per tutti sarà possibile.
Cosa pensa della richiesta di restituzioni di opere d’arte razziate che provengono da Paesi del continente africano e non solo?
Su questo ci stiamo interrogando profondamente. Tutto il sistema museale italiano sta affrontando questo tema. La direzione generale dei musei ha istituito un gruppo di lavoro di ricerca scientifica sulle restituzioni del patrimonio. Sono usciti una serie di volumi importanti su questo argomento negli ultimi anni; ricordo in particolare il libro di Dan Hicks The Brutish Museum. Noi scontiamo ritardi rispetto ad altri Paesi. Bisogna stabilire quali possano essere le linee guida per cercare di inquadrare il discorso. I musei anglosassoni hanno appena pubblicato delle linee guida che mi sembrano ragionevoli. Potrebbero essere utili per sviluppare la discussione anche in Italia, implementando la ricerca scientifica in merito. Ma come lei sa non si potrà mai generalizzare: ogni restituzione, ogni caso, deve essere discusso singolarmente e la responsabilità è politica. Agli operatori spetta di creare il framework teorico e scientifico sul quale poi il braccio politico possa fare le scelte che ritiene necessarie.