Per ragionare di periferie bisogna darsi tempo; un tempo lungo di pensiero e di azione, dove le interpretazioni e le idee non vengono da un giorno all’altro. Vengono dal costruire una relazione lunga coi territori, legata a una idea di vivere la prossimità, che allude alla disponibilità a “muoversi verso”, pur esprimendo alterità. Bisogna sviluppare curiosità e la capacità di farsi sorprendere. Perché le periferie talora sono disarmanti; a volte spiazzano anche gli “esperti” come architetti, urbanisti, scienziati sociali, per essere il luogo del fallimento del progetto. Ci lasciano con un senso di inadeguatezza. Dall’altra parte c’è invece la sorpresa di trovarvi tantissime risorse, quindi di non sentirsi da soli. Spesso, infatti, si scoprono importanti reti di associazioni, comitati, gruppi, istituzioni locali, con le quali è fondamentale sviluppare una relazione. La “marginalità” delle periferie sollecita fortemente il ruolo dei saperi: ha un carattere generativo, perché è capace di offrire una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative. Io penso però che oggi le periferie più che marginali, rischino di essere marginalizzate; cioè subiscono un processo per cui la città le mette ai confini delle dinamiche di sviluppo.
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