Il rispetto dei diritti più elementari resta fuori le sbarre dei Cpr. E il governo Meloni ne vuole costruire altri allungando fino a 18 mesi il periodo di trattenimento delle persone, incarcerate senza aver commesso reati
Le risposte che il governo Meloni sta attuando, per rispondere all’incapacità di gestire l’aumento annunciato degli arrivi di migranti e richiedenti asilo, soprattutto da Libia e Tunisia, rimandano ad una sorta di fallimentare coazione a ripetere che, sotto diversi governi, si pratica da decenni. Dal Memorandum Ue / Tunisia, al vertice di Lussemburgo, alla conferenza di Roma su “immigrazione e sviluppo” - che ha visto la partecipazione dei Paesi del Golfo ma l’assenza - se si eccettua la presidente Ursula von der Leyen - dei leader europei, sono arrivati solo annunci. Gli stessi provvedimenti di legge, dal cosiddetto decreto Cutro (Legge 50) alla dichiarazione dello stato di emergenza di aprile, fino agli emendamenti proposti in Consiglio dei ministri il 18 settembre, nel “decreto Sud”, sono un tentativo di dimostrare che la destra agisce, ma per fare cosa? Le risposte non cambiano: facilitazione (come?) dei rimpatri e aumento dei Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr). Soffermandoci su questi ultimi, sbandierati ancora come soluzione di tutti i mali, ma la cui “efficacia” è messa in dubbio da mezza Europa, è utile sottolineare alcuni elementi. Queste strutture, finalizzate a rendere effettivi i rimpatri forzati, nel periodo di massimo “splendore” hanno trattenuto e poi rimandato a casa meno del 50% di chi vi è incappato.
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login