Il naufragio del 3 ottobre 2013 è ancora una ferita aperta a Lampedusa. I pescatori hanno davanti agli occhi i salvataggi e le centinaia di vittime di quella notte terribile. E l’hotspot continua a documentare, giorno dopo giorno, l’odissea dei migranti arrivati dal mare
Lampedusa - A Cala Pisana i vacanzieri parcheggiano sgangherati motorini presi a nolo incollandoli al muro di cinta dello stradone. Ma è solo per raggiungere il mare, affittare ombrelloni e lettini, adagiarsi sul costone roccioso, fare un bagno. Quanti sapranno delle tombe di migranti senza nome, simbolo orrendo di questo nuovo Olocausto proprio lì accanto, al cimitero di Lampedusa, tra dedali deserti sotto la canicola e qualche vaso di fiori gettato a terra dallo scirocco? Forse nessuno, ed è uno specchio del mondo questa incoscienza, riflettiamo entrando. Chi per esempio ricorda (ma l’interrogativo è per tutti, in un Paese senza più memoria) del piccolo Yusuf Ali Kanneh, che annegò al largo di questo mare cobalto l’11 novembre del 2020 mentre sua madre gridava “Where is my baby, I loose my baby!”? “Dov’è mio figlio, ho perso mio figlio?”. Eccolo, suo figlio, sepolto in una piccola area a lui riservata. Aveva soltanto sei mesi e Adya, all’epoca diciottenne, guineana, certo non pensava di perderlo così quando si imbarcò disperata dalla Libia con una storia amarissima alle spalle seppure così giovane. «Uno su mille, se lo ricorda», accenna con poca voce Vito Fiorino. Falegname, pescatore, nato a Bari ma residente da tempo a Sesto San Giovanni e che a Lampedusa, nella sua nuova vita, fa il gelataio sei mesi all’anno, ci guida tra gli stretti e irregolari sentieri del cimitero desolato, dove la maggior parte dei naufraghi non ha una identità.
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