L’adozione della Direttiva Ue, che indica i parametri per garantire una paga adeguata nei 27 Paesi, non basta. Le politiche di decenni improntate all’austerity e al “vincolo esterno” hanno creato un’Unione a due velocità
e l’attuazione del pilastro dei diritti sociali è ancora lontana
La pandemia da CoVid-19, con i suoi drammatici impatti su salute, economia, società e politica, ha costretto l’establishment politico europeo a rivedere drasticamente le sue posizioni in materia di intervento degli Stati nazionali e dell’Unione europea in campo economico e sociale. Un cambiamento che non ha solo prodotto un aumento dei deficit nazionali, il programma Sure, (un regime paneuropeo temporaneo di sussidi contro la disoccupazione da 100 miliardi di euro) e il Next generation Ue (da 750 miliardi di euro), ma ha anche momentaneamente rimesso al centro della politica della Commissione e del Parlamento europeo il Pilastro europeo dei diritti sociali (approvato dai capi di governo al vertice del novembre 2017 a Göteborg) per costruire «un’Europa sociale» (auspicata da Jacques Delors per promuovere la solidarietà transnazionale fra i popoli e favorire la convergenza), portando la Commissione ad elaborare numerose direttive e un Piano d’azione discusso nel vertice sociale di Porto del 7 maggio 2021. La pandemia aveva dunque aperto un possibile processo di revisione delle regole della governance economica che sembrava essere diretto ad assicurare una «crescita economica inclusiva e sostenibile» (in linea con gli articoli 2 e 3 del Trattato di funzionamento Ue), superando il dogma neoliberista dell’austerità.
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