«La madre di tutti i problemi è il mancato riconoscimento del diritto alla mobilità dai Paesi afroasiatici», dice Gabriele Del Grande che nel suo nuovo libro documenta come in un secolo l’Europa abbia prodotto un sistema di “apartheid in frontiera”. E una scia di sangue nel Mediterraneo e nei deserti africani
Immaginatevi di potervi muovere da un Paese all’altro, da un continente all’altro per periodi più o meno lunghi di vita e di lavoro, per studiare o solo per visitare luoghi e mete turistiche, o per quelle esperienze che tanti giovani fanno o vogliono fare per mettersi alla prova e provare a scegliere la propria strada.
Obiettivi percorribili un secolo fa da una minoranza di persone soprattutto per motivi economici e di status sociale che continuano ad essere appannaggio di quella minoranza che ha i famosi passaporti rossi o blu. Per chi oggi ha un passaporto verde, la maggioranza della popolazione mondiale, quegli spostamenti sono negati dal regime dei visti e da quello che Gabriele Del Grande, nel suo nuovo libro Il secolo mobile. Storia dell’immigrazione illegale in Europa (Mondadori) definisce l’«apartheid in frontiera».Un’opera, non solo un libro, necessaria e definitiva. Grazie al rigore della ricostruzione storica, Del Grande riesce a farci comprendere in tutte le sue dimensioni - politiche, economiche, culturali e sociali - le conseguenze e l’origine di alcune norme sull’immigrazione e l’asilo. Scelte politiche che hanno causato e purtroppo continuano a causare migliaia di morti nel Mediterraneo, nel Sahara e sulla rotta delle Canarie e che segnano quella che anche Igiaba Scego in un suo libro di grande successo aveva definito La linea del colore.
Sì, perché Il secolo mobile ha il merito di mettere a nudo il regime razziale e classista dei visti, che, come scrive Del Grande, «non è che l’ultima forma di segregazione legalizzata ancora in essere nel mondo moderno». Per troppo tempo chi studia e fa attivismo in Italia e in Europa sul tema delle migrazioni ha cercato di contenere l’erosione dei diritti fondamentali, identificare misure per la tutela delle persone vittime di questo disegno, parando i colpi, reagendo talvolta con vigore alle continue sopraffazioni verso le persone razzializzate che sbarcano o che sono nate qui, ma restando sulla difensiva. La forza della propaganda che isola e denigra le Ong, e a suon di slogan e con la fabbrica della paura vince le elezioni, ci spinge alla difensiva e ad un eterno presente, fatto di repliche di dichiarazioni politiche e reazioni ad annunci di patti, dalla Tunisia all’Albania. Il libro di Gabriele Del Grande ha il merito di costringerci a uscire da questa prospettiva difensiva in cui ci hanno o ci siamo relegati, e rifocalizzarci sulle ragioni e le battaglie culturali, oltre che politiche, su cui lavorare insieme a tante realtà e intellettuali del Sud globale che, come Gabriele, da anni ci chiedono di decolonizzare lo sguardo e l’agire.
Gabriele Del Grande, è da più di 10 anni che raccogli storie, dati e notizie sulle migrazioni, cosa ti ha spinto a voler andare ancora più indietro nel tempo, fino a 100 anni fa, per parlare di immigrazione illegale in Europa?
In realtà inizialmente volevo parlare di futuro. L’idea era quella di un pamphlet sulla libera circolazione. Poi mi sono reso conto che per demigrantizzare il discorso sulla mobilità dal Sud globale dovevo prima ripercorrere la storia delle migrazioni tra le ex colonie e l’Europa. Andare alle origini dei divieti di viaggio che ancora spingono tante persone a bussare alle porte del contrabbando come unica chance per viaggiare in Europa. Perché è soltanto nella prospettiva storica che possiamo uscire dall’impasse del dibattito sul tempo presente e mettere a fuoco la madre di tutti i problemi: il mancato riconoscimento del diritto alla mobilità dai Paesi afroasiatici.
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