Il campo profughi di Jabalya è il più grande degli otto che si trovano nella Striscia di Gaza. Arafat lo chiamava «il campo della rivoluzione». Scrittore ed ex ministro della Cultura dell’Autorità nazionale palestinese Saif, lì è nato e cresciuto. In occasione della Biennale democrazia ci racconta come vive chi è rimasto vivo e come si resiste al piano di chi vuole svuotare Gaza e il nord della Striscia per occupare tutto, definitivamente

Non ho potuto impedire a me stesso di scrivere del campo di Jabalya quando ho visto le immagini che rivelano l’entità della distruzione subita e le scene della deportazione forzata che colpisce i suoi abitanti, dopo aver resistito per più di un anno ad un’orrenda guerra di sterminio. Jabalya viene annientato, e il nord viene cancellato dall’esistenza svuotandolo dei suoi abitanti e distruggendo ogni cosa che vi si trova, senza lasciare alcuna traccia della vita che vi esisteva. Il piano per svuotare il nord della Striscia di Gaza viene attuato come un modello che potrebbe estendersi fino a includere lo svuotamento graduale della città di Gaza. Guardo tutte quelle immagini strazianti provenienti dal campo di Jabalya, dove ancora si trovano gran parte della mia famiglia, i miei cari, i miei amici e i miei vicini. E, come facciamo sempre quando cerchiamo di ricostruire la nostalgia guardando le immagini che sfuggono allo sterminio, fuggiamo dal nostro presente verso il mondo dei ricordi familiari. Il campo non esiste più e il nord non esiste più, come non esisterà più Gaza se il criminale continuerà a portare avanti il suo piano nel silenzio del mondo. Riconosco a malapena le strade, e riesco a malapena a distinguere i vicoli o gli edifici; la distruzione ha trasformato tutto in un «cumulo di immagini infrante», per usare le parole di T. S. Eliot. Sono nato lì e ho vissuto lì tutta la mia vita, tranne gli anni trascorsi all’università.

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