37 milioni al voto e una schiacciante vittoria del No. Il «dolore» di Paolo VI per una sconfitta cocente in una consultazione voluta proprio dai cattolici. Il ruolo dei Radicali e quello del Pci

All’indomani dell’approvazione della legge Cirinnà e nel giorno in cui il centro destra annuncia la nascita di un Comitato – presieduto da Eugenia Roccella (Ncd) – per la richiesta di referendum abrogativo sulle unioni civili, ricorre l’anniversario del referendum sul divorzio. Il 12 e 13 maggio del 1974 oltre 37 milioni di aventi diritto furono chiamati a pronunciarsi sull’abrogazione della legge 898/70, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, meglio conosciuta come Fortuna – Basilini (dal nome dei due deputati proponenti, il socialista Loris Fortuna ed il liberale Antonio Basilini). Fu il primo referendum della storia della repubblicana ed anche il più partecipato: ben 33 milioni di italiani si recarono alle urne ed il quorum dei votanti raggiunse l’87,7%. La vittoria dei No fu schiacciante: ben il 59% dei votanti – 19 milioni – si espresse contro l’abrogazione della legge, a fronte di appena il 40% di favorevoli – poco più di 13 milioni. Il Si prevalse al sud (con il picco del Molise del 60%) in Veneto e Trentino Alto-Adige, mentre le regioni settentrionali si schierarono a favore della Fortuna – Basilini.

La legge era stata approvata alla Camera il 1 dicembre 1970 con 319 voti favorevoli e 286 contrari dopo una lunga campagna dell’allora Partito Radicale, protagonista in quegli anni sulle grandi questione legate alla laicità e ai diritti civili. Il fronte divorzista era molto ampio, e abbracciava una maggioranza parlamentare ampia e trasversale (comunisti, socialisti, socialdemocratici, radicali, liberali e repubblicani). La Democrazia Cristiana, il Movimento Sociale Italiano e il Partito Italiano di Unità Monarchica, che avevano votato contro il provvedimento, si organizzarono prontamente in un Comitato nazionale per il referendum sul divorzio, guidato dal giurista cattolico Gabrio Lombardi. Nel giugno del 1971 il Comitato aveva già raccolto le 1.370.134 firme necessarie per chiedere l’indizione della consultazione.

 

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I grandi sconfitti di quella consultazione elettorale furono la Democrazia Cristiana ed in particolare il suo segretario, Amintore Fanfani, uno dei principali promotori del referendum. Fanfani voleva sfruttare l’eventuale vittoria del Si per ridimensionare i partiti di sinistra, sopratutto il Pci di Enrico Berlinguer, tra i maggiori esponenti del fronte del No. Anzi, la vittoria giovò al partito comunista, che nelle elezioni politiche del 1976 aumentò in maniera considerevole i propri consensi rispetto alla precedente tornata elettorale del 1972.

Anche il ruolo della Chiesa cattolica fu fortemente ridimensionato. La Comunità Episcopale Italiana (Cei), stupita di trovarsi di fronte ad un paese completamente cambiato e molto più moderno rispetto a quello del dopoguerra, espresse «profondo rammarico» per quello che era successo, mentre Paolo VI disse che il risultato elettorale del referendum era «motivo di stupore e dolore».

Sulla vittoria del No pesarono molto le spaccature interne al mondo cattolico: buona parte di esso – come le Acli – votò contro l’abrogazione della legge, disattendendo le indicazioni ufficiali dei vertici. Lo storico Piero Scoppola, alla testa dei cosiddetti «Cattolici Democratici» lanciò un appello per il No, al quale aderirono molti intellettuali e accademici provenienti dal mondo cattolico, come Franco Bassanini, Paolo Prodi, Giuseppe Alberigo, Paolo Brezzi e Raniero La Valle. Solo Comunione e Liberazione rimase completamente fedele alla linea del Papa e dei vescovi.

Una foto di archivio di Amintore Fanfani il giorno del 12 maggio 1974 quando gli italiani approvarono con un referendum a  netta maggioranza la legge che consentiva il divorzio . ARCHIVIO ANSA/DEF

La normativa, rimasta in vigore sino ai nostri giorni, è stata modificata in due occasioni: nel 1987, per un accordo voluto dall’allora Presidente della Camera Nilde Iotti, il parlamento approvò all’unanimità la riduzione da 5 a 3 anni di separazione per poter accedere al divorzio. Infine, nella primavera del 2015, è stato introdotto nell’ordinamento italiano il «divorzio breve», che riduce in maniera drastica i tempi di attesa – sei mesi per il divorzio consensuale e massimo dodici per quello giudiziale.

Negli ultimi anni c’è stato un assestamento di separazioni e divorzi di fronte ad un calo evidente dei matrimoni – nel 2014 sono stati celebrati 421 primi matrimoni per 1000 uomini e 463 per 1000 donne, con una flessione rispetto al 2008 rispettivamente del 18,7% e 20,2%. In aumento considerevole le convivenze, che si attestano intorno al 10% delle coppie nel Nord Italia e il 7% al centro.