A Faenza, sul muro di una casa, una lapide recita: «Qui ebbe i natali Bruno Neri, comandante partigiano caduto in combattimento a Gamogna il 10 luglio 1944».
Bruno Neri, studente in agraria, cresce nella squadra del Faenza, in Seconda Divisione Nord e capace di salire di categoria nel campionato ’27-’28. Più terzino che mediano, il ragazzo si ritrova al Livorno, militante nel massimo campionato nazionale ancora articolato su due gironi, ma il tecnico ungherese Vilmos Rady gli concede una sola partita. La stagione seguente, per 10.000 lire, il diciottenne finisce in serie B alla Fiorentina del Marchese Ridolfi, gerarca fascista, e allenata da un altro ungherese: Gyula Feldmann abile nel proporre il neoacquisto nel ruolo di mediano. Il quarto posto purtroppo non vale ancora la promozione, raggiunta invece l’anno dopo quando gli uomini con più presenze saranno proprio il ventenne faentino ed il portiere Bruno Ballante da Tivoli, detto “il gatto magico”.
Per affrontare la serie A, ormai a girone unico, serve lo stadio nuovo. Nella gara d’inaugurazione del Giovanni Berta, Bruno Neri è il solo tra tutti i giocatori schierati in fila a non alzare il braccio per il saluto alle autorità fasciste presenti nell’unica tribuna agibile. In sette stagioni a Firenze, il centrocampista romagnolo segna un solo gol, datato novembre ’31. È il vantaggio viola in casa dell’Internazionale ribattezzata Ambrosiana prima del pari firmato da Meazza.
Nell’estate del ’36, mentre l’Italia di Vittorio Pozzo, campione del mondo in carica, vince anche le Olimpiadi di Berlino, Neri passa a Lucca agli ordini dell’ennesimo stratega magiaro, Ernest Erbstein la cui vita meriterebbe un libro a parte. E proprio come calciatore della Lucchese, disputa le prime due gare in Nazionale: contro la Svizzera a San Siro e contro la Cecoslovacchia a Genova. Gioca il terzo ed ultimo match in azzurro a Ginevra nell’autunno del ’37 quando ormai veste la maglia granata.
A Torino, Neri frequenta artisti e scrittori, molti dei quali lo stimano come esempio di lealtà e coraggio. Continua a giocare regolarmente e trova il tempo di iscriversi all’Università degli Studi orientali di Napoli. Dopo l’entrata in guerra, decide di smettere e rientra nella sua Romagna. Investe i risparmi in un’officina di Milano nella quale assumerà alcuni amici e trascorre la stagione ’40-’41 come allenatore del Faenza.
Quando gli eventi precipitano e il regime vacilla, sceglie di tornare sul campo per un’altra carriera. Prima l’armistizio di Cassibile e poi l’8 settembre rivelano il volto dell’ex alleato nazista. Bruno Neri sogna un Paese migliore e si arruola nel Battaglione Ravenna: partigiani attivissimi alle spalle della Linea Gotica. Il suo nome di battaglia è Berni, grado Comandante. Il 10 luglio ’44, insieme a Vittorio Bellenghi, nome di battaglia Nico ed ex giocatore di basket, si imbatte in un drappello tedesco nei pressi dell’eremo di Gamogna. Nel conflitto a fuoco che ne segue, rimangono uccisi entrambi.
La lapide sulla casa di Faenza prosegue: «Dopo aver primeggiato come atleta nelle sportive competizioni rivelò nell’azione clandestina prima e nella guerra guerreggiata poi magnifiche virtù di combattente e di guida. Esempio e monito alle generazioni future».