Dagli studenti era partita una reazione pacifica al disastro umanitario legato alla guerra in Medio Oriente. La repressione della polizia, chiamata dai vertici di campus universitari (che sono delle multinazionali) ha innescato una escalation, spiega la politologa della Columbia University: «E' stata una prova generale di tante altre forme di intervento che in Italia si chiamano della governabilità»

«L’adesione dei giovani a questa contestazione non è mossa da interessi personali. Questo è il dato che ci dovrebbe impressionare positivamente. Sono giovanissimi, non fanno i calcoli sulle convenienze. Sono l’anima buona della nostra società, e i vertici dell’ateneo hanno commesso un’azione arbitraria». Testimone dal vivo di quanto sta accadendo, la politologa Nadia Urbinati, che insegna teoria politica alla Columbia University di New York da 28 anni, è netta nel valutare con noi la realtà della protesta studentesca in atto contro Israele e pro palestinesi: «C’è una situazione di grande dissenso interno, di vera contestazione. Il rettorato ha preso decisioni senza consultare il Senato, violando il regolamento interno e i diritti costituzionali che la Columbia si è data nel Sessantotto. In seguito alle dimostrazioni e ai tumulti di allora – ci spiega – venne istituito appunto un Senato accademico con la funzione di ispezionare, collaborare ed essere guida per i docenti, nonché punto di riferimento per il presidente che non ha una funzione dispotica ma deve operare insieme al Consiglio di amministrazione e al Senato stesso».

Il clima è pesantissimo, e la scelta della rettrice Nemat Shafik di fare intervenire la polizia ha trasformato il campus nel teatro di uno scontro davvero alla Fragole e sangue: disordini, spray al peperoncino, mazze e bastoni, arresti. «Viviamo una situazione da stato di emergenza, da stato militarizzato», dice la Urbinati, che non nasconde la sua grande preoccupazione: «Sono molto pessimista sull’evolversi della situazione, molto complessa e poco chiara. Si respira una grande tensione. Per poter entrare nel mio ufficio l’altra mattina ho dovuto girare per ore nell’ateneo cercando un varco libero». L’intervento delle forze dell’ordine ha innescato una «escalation generata», spiega la professoressa, scavando un solco tra i vertici dell’ateneo e uno schieramento composto sia da docenti, trattati come dipendenti senza diritto di parola sulle decisioni prese, e sia da studenti da cui era partita una reazione pacifica al disastro umanitario legato alla guerra in Medio Oriente.

Giovani che vedono i morti di Gaza e alzano la voce, in quella che ha assunto i connotati di una protesta globale e che dilaga in tutte le università: dalla Francia al Messico, passando per la Germania e l’Italia. Negli Stati Uniti sono sessanta le università e i college che stanno partecipando al movimento in solidarietà con la causa palestinese e per chiedere che vengano sospesi i legami scientifici e finanziari tra gli atenei stessi e Israele. Negli ultimi giorni più di duemila giovani sono stati arrestati, e il dibattito è sempre più acceso sui limiti del diritto di parola e le accuse di antisemitismo.

«Il movimento legato alla denuncia della sofferenza del popolo palestinese a Gaza diventa un punto rappresentativo di altri problemi che ci possono essere nelle nostre società. Non è solo la questione palestinese. Quella fa da punto focale per altri problemi», ci dice la politologa Urbinati. Un dissenso che arriva da lontano: «Non ci ha colto proprio di sorpresa. Il movimento già esisteva a partire dal 2018 quando cominciarono le contestazioni per la sindacalizzazione del lavoro precario dei contrattisti, dei dottorandi. Dopo tre anni di blocco, hanno ottenuto diritti sulla sanità e altri legati al mantenimento e all’istruzione dei figli».

Il movimento di oggi è nato all’indomani del 7 ottobre. «Prima con le contestazioni nei confronti del conflitto nella Striscia di Gaza e poi, via via, anche per errori compiuti dalla rettrice, ha scatenato una polemica che non si è mai interrotta da novembre. Insomma, questo movimento trasversale e cosmopolita era già visibile da tempo». Esiste, sì, una forma di internazionalismo, risponde la politologa alla nostra domanda. «Ed è molto forte. In Europa – approfondisce Urbinati – molto più che negli Stati Uniti c’è una condizione di intervento diretto dei governi e delle polizie di Stato. Si pensi alla Germania. I campus americani sono privati per cui lo Stato non entra, sono autogestiti. In questi casi i problemi sorgono per le persone non adatte che governano come nel caso del nostro rettore. Qui non è lo Stato che impone la polizia, viene chiamata, nelle università pubbliche europee è lo stato che manda la polizia, perché le università non sono autonome».

L’accademica italiana si sofferma poi sul metodo repressivo con cui si sta intervenendo sulle iniziative di ribellione delle frange più giovani della popolazione. Nel campus newyorkese come nel resto del mondo: «Questa è come una prova generale di tante altre forme di intervento che in Italia si chiamano della governabilità. Qui l’hanno messa in atto. È un tipo di governo che i campus americani consentono perché sono organizzazioni private, sono multinazionali. Non è forma di governo politico ma di dominio perché hanno interessi molto corposi da difendere e l’aspetto educativo e il rapporto con gli studenti è secondario. Lo ha dimostrato il comportamento della rettrice. È un metodo di intervento sulla società che può essere applicato in altri ambienti, in altre situazioni, in altri stati. L’Italia fa parte di questo: è un Paese autoritario in cui la polizia viene scatenata appena dieci persone si riuniscono in una piazza. È un metodo che da ora in poi sarà sempre più esteso, metodo di dominio di una parte sull’altra, è arbitrario e gerarchico».
Giovani e ribellione di fronte alle ingiustizie riportano alla memoria vecchie pagine di storia, ma Urbinati rifiuta un parallelismo con il Sessantotto: «È una comparazione azzardata. Alle rivendicazioni del Sessantotto si è arrivati dopo le azioni degli studenti socialisti, le rivendicazioni dei diritti civili, le lotte dei neri con Martin Luter King. C’è poi un elemento particolare di quella contestazione nei campus americani: quando il Governo impose a tutti i cittadini americani maschi dall’età di 18 anni l’arruolamento obbligatorio per andare a combattere in Vietnam, gli studenti si ribellarono. Quella fu una ribellione politica ma anche legata a personali esigenze e posizione di timore per la propria vita e il proprio futuro. In quelle contestazioni c’era insomma un interesse diretto. La contestazione alla Columbia del Sessantotto fu una vera rivolta. Arrivò la polizia chiamata dal rettore dopo giorni di agitazioni, cioè quando già la situazione era molto compromessa. Qui invece è avvenuto qualcosa di diverso: questo movimento non ha legami diretti con gli interessi degli studenti. È puramente politico e teorico, o se si vuole ideologico. Non c’è nessun legame a convenienze personali».
Ragione per cui trova insensato che «da parte della stampa italiana ci sia quasi ironia o sarcasmo nei confronti di questi ricchi studenti delle università private. Sono posizioni ingiuste e assurde che non prendono in considerazione che i ragazzi arrestati o sospesi si sono giocati il futuro e non solo a Columbia. perché non verranno più presi da nessun campus. Hanno rischiato il loro futuro. Non hanno fatto i conti su quello che a loro conveniva o meno. La loro adesione spontanea dovrebbe essere messa al centro di ogni considerazione».
Nella Columbia University la polizia resterà nel campus fino al 17 maggio, due giorni dopo la cerimonia delle lauree di circa 15mila studenti in linea con la richiesta formulata dalla presidente Nemat Shafik.