Sette testi teatrali su vite e pensieri di donne contro la violenza che hanno subito. Un'alta drammaturgia poetica in cui Tiziana Colusso denuncia il meccanismo di manipolazione che vuole rendere le donne sottomesse

Dall’origine dei tempi, abitare la dimensione del tragico significa resistere in funambolico equilibrio tra amore e morte, dolore e vita. Nella raccolta di testi teatrali Lengua de Striga. Teatro delle voci (Bertoni, 2024) Tiziana Colusso riesce a dare corpo e voce a storie che tragicamente narrano di donne oggetto di violenza, funambole di un’esistenza in cui a barbagli di vitalità, di propulsioni alla ribellione, si alterna un oscuramento della coscienza verso una progressiva e muta rassegnazione. È il caso del primo testo, “Casa senza bambole”, in cui l’autrice mette in scena la condizione di una donna prigioniera. Il suo amato è diventato un carceriere: la tiene relegata in uno spazio delimitato, decide della sua alimentazione e, rapito dal buio della ragione, la riduce in schiavitù in forza di una sotterranea volontà cieca e perversa. La protagonista del monologo ripercorre le azioni che l’hanno fatta piombare in quel baratro: le cure dell’amato nell’anticipare i suoi bisogni, nel sollevarla dalle dure incombenze materiali del quotidiano, si trasformano in una reclusione il cui unico rapporto diventa quello con un carnefice.

La dicotomia vittima/carnefice, storicamente, riverbera un fenomeno sia individuale che collettivo perché se, da un lato, è l’azione del singolo a guidare la persecuzione su un soggetto fragile, portatore inconsapevole di “tratti vittimari”, dall’altro bisogna tener presente che gran parte della cultura occidentale, antico greca, protocristiana e cristiana, è interamente cementata sul diffuso bisogno di individuare un capro espiatorio, vittima sacrificale dei mali del mondo. Etimologicamente, il significato di “tragedia” deriva dalla composizione dei due termini greci: “tragos – ode” traducibili in “canto di capri” e, infatti, nel teatro greco delle origini il coro era formato da coreuti mascherati da teste di capri che, in un lamento corale, raccontano l’origine del sacrificio di cui erano stati oggetto e vittime espiatrici.

Come ben analizza il filosofo francese René Girard, uno dei tratti che emergono dalla riflessione storico-filosofica sulla narrazione tragica classica poggia su uno schema pressoché universale: i persecutori prendono di mira individui o gruppi sociali con tratti psicologici o comportamentali espressione di una alterità, e si accaniscono contro di loro proprio in ragione di tale differenza. Parimenti, l’ossessivo e mortifero persecutore di “Casa senza bambole” cerca di reprimere la vitalità e la creatività della sua donna, così diversa da lui. Attraverso la descrizione del mondo interiore della voce narrante, Tiziana Colusso riesce sapientemente a rappresentare il complesso meccanismo di manipolazione che piega le donne alla sottomissione. Una sottomissione che diventa invece pura violenza nel testo teatrale “Il precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria”. Qui, una pluralità di voci, da quella mitologica della maga Circe a quella reale di una delle vittime del massacro del Circeo, Donatella Colasanti, sdoppiata nella versione giovanile e matura, articola teatralmente le riflessioni e le persecuzioni giudiziarie frutto della mentalità collettiva ancora retriva ed espiativa degli anni 70.

Mediante una pluralità di voci, l’autrice di Lengua de striga riesce anche a inoltrarsi negli angusti anfratti del bullismo collettivo quando, a farne le spese, è la povera Irina l’idiota, come la chiamano in paese. Irina, giovane ragazza di campagna immersa nello «stupore del mondo», guarda con timida ammirazione un gruppo di giovani. Li scruta da lontano e non oserebbe avvicinarsi se non fossero i ragazzi a cercarla per poi trasformarsi repentinamente in aguzzini, legandola a una roccia tra sputi, risate e strappandole i vestiti «per vedere l’aspetto di quel corpo sgraziato, sempre camuffato dentro stracci e scialli, come una lebbrosa». Il coro dei paesani, tuttavia, interrogato sull’accaduto, si schiera dalla parte dei ragazzi giustificandone la ferocia in quanto colei appare, ai loro occhi, solo come errore di natura, più simile a un animale aggressivo che a un essere umano. Una difesa collettiva, quella del coro dei paesani, che testimonia quanto il capro espiatorio funga da catalizzatore di istanze sacrificali generate da fragilità collettive.

Incontrando l’autrice, donna bella e poetica, mi sono chiesta da quali profondità del proprio sentire sia emersa la capacità di dipingere figure femminili così distanti dall’universo simbolico dei media; eppure, così intimamente vicine a ognuna di noi. La risposta, credo, è tutta in questi sette testi, scritti in un arco di tempo che va dal 1990 al 2023, alcuni già editi, altri solo rappresentati, altri inediti. Sette storie di cui vale davvero la pena fruire, sia come “testimonianze” al femminile, sia come alta espressione di drammaturgia poetica.

L’autrice: Laura Massacra è autrice e producer Rai