Forse la verità sulla morte di Stefano Cucchi è più vicina. Il forse è d’obbligo. Ma ormai sembra saltata la regola dell’omertà di Stato, della simulazione e della dissimulazione, alla cui ombra si sono riparati gli assassini: uomini insediati nei terminali dove lo Stato dovrebbe garantire sicurezza e assistenza alle persone, specialmente se deboli e indifese. E invece è proprio lì che bisogna avere paura dell’arbitrio, della disattenzione, della sciatteria, di quella peste che è l’omertà come malintesa solidarietà di corpo.
Accanto a chi picchia, tortura, rompe le ossa, fino a trasformare un giovane uomo in un cadavere, c’è chi non vede e non sente, ignora lamenti e grida, redige verbali che stemperano, alterano, rovesciano la realtà. Ma ora, contro di loro, è nato un movimento. Grazie all’opera tenace della sorella di Stefano, grazie a tutta la famiglia del giovane geometra ucciso da chi doveva averne cura, una tragedia privata è diventata una questione pubblica. Non si è più disposti a tollerare una sentenza di assoluzione per “insufficienza di prove”. La prova c’è, è nella fotografia di quel volto. Da lì è nato un movimento per la giustizia. Quella fotografia del volto martoriato di un giovane uomo ucciso è la sua bandiera.
Dopo anni di vergogna, di leggi a protezione di corrotti e di evasori, di abissi scavati tra potere e popolo, è intorno all’icona di questa vittima incolpevole che rinasce la speranza e si raccolgono pubblicamente tante persone. A oggi la sequenza delle fotografie conta tra gli altri i volti e le agonie di Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini. E niente garantisce che altri non se ne aggiungano. Ma ormai basta l’uso di un cellulare per sbugiardare con la precisione delle immagini la lingua di legno dei verbali di questure, carceri e ospedali.
Intanto il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha dichiarato che l’istanza della famiglia Cucchi è assolutamente legittima e fondata. Forse possiamo cominciare a chiedere e a sperare che si arrivi finalmente a fissare le regole che mancano: per esempio rendere identificabili con un numero i membri dei tanti corpi che si occupano di ordine pubblico: e magari dotarli anche di un’altra cultura e di una deontologia fondata sulla Costituzione e rispettosa dei diritti delle persone. E intanto, perché no, approvare subito una legge decente sul reato di tortura: che è fondamentalmente ancor oggi quello che è sempre stato cioè un reato che si consuma nel rapporto tra il cittadino e il potere e non un qualsiasi abuso nei rapporti privati come per ora dice la legge che si trascina in Parlamento – una delle tante cattive leggi a cui ci hanno abituati nel regime che alla Costituzione ha sostituito il patto del Nazzareno, quelle leggi scritte apposta per nascondere i reati o destinarli a una rapida caduta in prescrizione.
Lontanissimi i tempi delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, del celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Eppure il dilemma è sempre quello, se gli abusi giudiziari e la tortura siano un problema di leggi da cambiare (Verri) o un problema della coscienza dei giudici (Manzoni). Non sono poi tanto diversi i termini del confronto attuale fra le teorie “consequenzialiste” del fine che giustifica i mezzi e quelle di un’etica rigorosamente kantiana. Lo si vede nella cultura americana, dove il ricorso alla tortura appare sempre più legittimato dall’ossessione collettiva della lotta al Terrore.
Si avanza qui la tesi fondata sulla teoria del “consequenzialismo”: l’inquirente che sta esaminando un sospetto terrorista deve pensare alle conseguenze che potrebbe avere l’astensione dal ricorso alla tortura nei confronti di una persona che forse sa dove è nascosta la bomba a orologeria. Quante vittime ignare possono essere salvate semplicemente togliendo ogni limite alla durezza dell’interrogatorio, anche se si rischia di uccidere un innocente? E davanti a questo argomento impallidisce il principio fondamentale della morale kantiana – fa’quel che devi, accada quel che può. Sono temi su cui si concentra da anni la riflessione di studiosi come il professor Matthew Kramer di Cambridge. Ma le severe discussioni accademiche su questi argomenti sono alimentate soprattutto da un fatto: il ritorno in auge del ricorso alla tortura nei più diversi modi e forme, per lo più lontano dall’occhio della legge. Avviene per esempio nel territorio della concessione di Guantanamo, con l’ipocrisia di lasciare i cittadini degli Usa nel loro candido convincimento di essere un paese governato dalla legge.
In Italia ci sono stati i casi individuali già ricordati ma anche quelli di cui è stata teatro la città di Genova durante i giorni del G8. Di fatto ci troviamo davanti all’emergenza di un ritorno in auge della tortura e della pena capitale nelle forme sfuggenti e anomiche dell’informalità e del caso per caso. Tanto più grave appare la nebbia che copre la questione nella vita civile di un Paese come il nostro: un Paese che quest’anno celebra il ricordo centenario di Beccaria come gloria nazionale.