Tre aggettivi per il film Deux jours, une nuit dei Dardenne: bello, rigoroso, toccante. La storia: una giovane donna, Sandra, ha 48 ore di tempo, un week end, per convincere i suoi colleghi a votare, affinché conservi il suo posto di lavoro. Tale decisione comporta la perdita di un bonus di mille euro per ciascuno di loro. La donna, per chiedere se siano d’accordo o meno, gira di casa in casa, da un quartiere all’altro, giorno e sera, sola o in compagnia del marito. Vacilla, si ferma, riparte, sente di non valere niente, ha paura di suscitare pietà, prova rimorso per ciò che sta togliendo agli altri. La concorrenza asiatica sui pannelli fotovoltaici impone all’imprenditore di ridurre il numero degli operai. Nulla di personale, ma lui deve agire coerentemente con le regole del profitto. Gli operai, alcuni con sincero rammarico, altri senza remora, devono fare i conti con rate, bollette, spese, e il bonus, 80 euro in più al mese, fa loro comodo. Nessuna slealtà, ma è il prezzo della vita, che impone la scelta. Il caporeparto disprezza Sandra, perché è caduta in depressione. Nessuna titubanza, ma in fabbrica non è permessa alcuna fragilità, sinonimo di inefficienza e incapacità.
I Dardenne, come già accaduto in passato, dipingono con rapidi tratti sicuri l’immagine di una donna, colta in una situazione estrema, che tuttavia ci tocca tutti da vicino: il rischio del licenziamento. Della sua “malattia” ignoriamo le cause, ma poco ci importa del quadro clinico, il film è l’inquietudine che serpeggia sin dalle prime inquadrature e si acuisce nel momento della scelta; è il malessere di una realtà sociale che, puntando sull’individualismo e il liberismo sfrenato, ha provocato l’atomizzazione dei rapporti umani e la polverizzazione della solidarietà di classe; è il disagio che si percepisce nelle reazioni altrui e suscita in chi guarda l’inevitabile domanda: cosa farei io al posto loro?
Ma soprattutto è l’emozione di un percorso, intessuto di rapidi incontri, battute che si ripetono, lacrime ricacciate indietro, gesti meccanici, che non riescono a lenire il dolore. Sandra, a cui Marion Cotillard, dona pudore e credibilità, pedinata dalla macchina a mano, tra inquadrature lunghe e fotografia sgranata, va incontro al suo Ok Corral, la temuta votazione in fabbrica, con il volto struccato, segnato dalle occhiaie, i capelli stretti da un elastico, le spalle curvate da un peso invisibile, che le lavora dentro,costringendola a fare i conti con un senso di disistima tragico, che, per esigenze di sintesi, finisce per mitigarsi sotto finale, lasciando intravedere una tenue speranza.
I Dardenne, che per questo lavoro si sono ispirati a un testo di Pierre Bordieu, sono tra i pochi registi europei, che riescono a raccontare, senza retorica e fini consolatori, gli offesi, i perdenti,gli outsiders in cerca di riscatto. Qui rappresentano la “guerra dei poveri” in atto nel mondo del lavoro. Lo fanno con estremo rigore e ormai pluriennale convinzione.
Lo fanno perché questo è il loro mondo poetico: film low budget, storie apparentemente semplici, realismo lavorato da finezze introspettive, generose prove attoriali, grande senso della contemporaneità e della violenza dei conflitti sociali. Un occhio rivolto all’Europa, in cui si sta disintegrando il welfare, l’altro all’unico riscatto possibile: l’umanità degli individui.