Ma a che serve la mafia? Non facile a dirsi. Malgrado intere biblioteche non esiste una risposta più convincente delle altre. Certo serve ai mafiosi che ci campano e, qualche volta, si arricchiscono. In parecchi casi serve a quelli che ne richiedono i servigi: ossia voti, appalti, concorrenze sleali, smaltimento di rifiuti.
Fintanto esiste una domanda di illegalità esisterà un’offerta illecita ed è inevitabile che questa offerta tenda prima o poi ad assumere i connotati di una vera e propria organizzazione. Se non ci fosse stata una domanda strutturata e complessa di merci non avremmo le catene di supermercati; così se non ci fosse una richiesta impetuosa di servizi illegali non avremmo il mercato della droga, della contraffazione, dei rifiuti illegali, della prostituzione e via seguitando.
Concetti banali dirà qualcuno. Però la stragrande maggioranza dei “mafiologi” concepisce la mafia come un’organizzazione dotata di un progetto di egemonia planetaria, capace di espandersi sulla base di scelte razionali, una diabolica Spectre. Tra costoro vi sono quelli che lamentano l’invasione mafiosa del mite Nord da parte delle cosche, senza dire che quelle che hanno trovato spazi devono il proprio successo alla domanda di mafia che quelle regioni hanno ormai stabilmente elaborato.
Le coppole vanno dove vengono chiamate; dove questo non accade al più riciclano, ma non operano come organizzazioni mafiose. In Europa e, per fortuna, in tante zone del Paese ci sono mafiosi senza la mafia; il ché, sia chiaro, è il minor danno e fa capire perché molti Stati non avvertano la necessità di una norma come il nostro articolo 416 bis. La mafia non può essere confusa con i mafiosi; la prima per operare ha bisogno di condizioni (assoggettamento, omertà, intimidazione) che in effetti sono molto complesse da replicare, mentre i mafiosi girano il mondo in lungo ed in largo curando i propri affari dove gli pare.
Cosa c’entra tutto questo con Mafia Capitale? Qualcosa c’entra. Ai tempi di Tangentopoli, e anche dopo, la corruzione era un monopolio quasi esclusivo delle organizzazioni politiche. I padroni del voto sceglievano i propri uomini e li collocavano in tutte i gangli della cosa pubblica. Una perfetta macchina da guerra in cui ogni capo corrente aveva la mappa precisa del proprio dominio dentro la burocrazia e con essa misurava la quantità delle proprie ricchezze.
Il partito leggero di Berlusconi e, da più di un decennio, l’organizzazione dello stesso centrosinistra hanno lasciato in libertà vassalli e valvassori e al feudalismo, corrotto ma efficiente, dei ras della politica si è sostituito un ceto anarchico e vorace che depreda senza avere alcun progetto che non sia quello di far soldi. Capi dipartimento, direttori, capi ufficio, capi struttura, primari, rettori si sono trovati improvvisamente emancipati dal dovere di dar conto ai padrini della politica che li avevano insediati nei loro scranni e si sono messi, come dire, a rubare in proprio. Dove per rubare non si intende solo il mettersi in tasca del denaro, ma anche il profittare delle funzioni pubbliche per costruire proprie reti di relazioni, efficaci e capillari.Oggi la “Camera stellata” dei potenti della burocrazia è un’Idra dalle mille teste con cui la politica deve fare i conti se vuole portare a casa un risultato. Per non parlare di quello che accade in Regioni e Comuni, dove l’emancipazione dell’amministrazione dalla politica ha ribaltato i ruoli: molti assessori sono prigionieri delle strutture e mendicano briciole di potere.
La magniloquenza di chi invita la politica a reagire e a rinnovarsi è un vano esercizio retorico. Il ceto politico non guida la burocrazia del Paese e, quindi, non guida il Paese, ma si limita a tentare un appeasement con un corpaccione inamovibile intento a bloccare ogni riforma e a soffocare ogni novità.
Da questo punto di vista la mafia di Carminati e Diotallevi (autoproclamatisi l’uno “re di Roma” e l’altro “boss dei boss”) assomiglia alla donnicciola della Colonna infame capace, con le proprie chiacchiere, di mandare a morte come untore un povero barbiere. Sia chiaro nel caos anarchico della corruzione romana (il solo comune di Roma ha un bilancio di circa 7 miliardi di euro, senza contare la sanità, i ministeri etc.) è inevitabile che qualcuno pensi di mettere un po’ d’ordine a suon di legnate e minacce e di ricavarne un guadagno. È la domanda di mafia, bellezza! verrebbe da dire. Si costruiscono relazioni illecite tra mascalzoni per cercare uno spazio in un mondo che viene sempre più divorato dal nulla che avanza come nella Storia infinita di Ende. Si porta a sistema la corruzione per adoperarla in favore degli amici e contro i nemici; la si organizza appunto.
Carminati e Diotallevi in molte conversazioni sembrano due maldestri apprendisti stregoni, lontani anni luce dai boss siciliani e calabresi. Una volta il fratello di Totò Riina conversando per caso con un giornalista ebbe a dire di Tommaso Buscetta: «Quello ha visto il mondo ed è uscito pazzo». Bella metafora per re e boss della Roma da mangiare.