Magic in the moonligh, l’ultimo film di Woody Allen presentato al Festival di Torino, è ora in sala. Il protagonista è Stanley (Colin Firth), famoso illusionista inglese, che veste i panni del mago cinese Wei Ling Soo e fa sparire elefanti e persone con il plauso entusiasta del pubblico. Viene contattato da un amico di vecchia data, affinché smascheri una sedicente medium (Emma Stone), che ha conquistato le attenzioni della ricca famiglia Catledge. La ragazza, Sophie, accompagnata dalla madre manager, pur essendo sospettata di essere un’imbrogliona, sin dal primo incontro, colpisce il razionale e cinico Stanley.
Invano egli cerca di capirne illusionismi e trucchi: le essenze ectoplasmatiche con cui comunica, le visioni mentali grazie alle quali predice il futuro, i tonfi con cui gli spiriti consolano i vivi durante le sedute medianiche. Dopo una sera al chiaro di luna, Stanley capitola e accetta le abilità della fanciulla, mantenendo il suo consueto aplomb. Solo quando arriva inatteso il confronto con la morte: il positivista, che non disdegna Nietzsche, si domanda se esista qualcos’altro oltre la verità scientifica, qualcosa che non comprendiamo razionalmente e che abbia a che fare con l’aldilà, ma i dubbi fortunatamente si dissolvono ad un esame obiettivo dei fatti.
Il tema ragione e irrazionalità, dubbio/ fede, di bergmaniana memoria, viene declinato da Allen in tono decisamente minore e fiacco. Dissertazioni e rovelli passano attraverso le parole e non suscitano reale empatia. Siamo lontani dalle atmosfere di Commedia Sexy in una notte di mezza estate e, rispetto ad altri recenti film – il migliore dei quali resta Basta che funzioni – si assiste a un’ulteriore perdita di vigore ed elasticità inventiva.
La vicenda è prevedibile, ma nelle commedie è la consuetudine; i dialoghi sono didascalici, anche se sostenuti dalla bravura encomiabile degli attori; il sorriso, che certe battute al vetriolo di Allen suscitavano, qui diventa stanca smorfia; le eleganti ambientazioni, la Germania anni Venti e il solare Midi francese, seppur fotografati da quel talento indiscutibile che è Khondji, risultano dei set glamour più intonati con il mondo della pubblicità che con la fiction romantica.
Il fine della commedia brillante, sofisticata o rocambolesca che sia, è provocare, insinuare, graffiare, oltre che far ridere, mettendo in scena il rapporto e la battaglia tra i sessi, le schermaglie e gli antagonismi , e soprattutto i corpi, maschile e femminile, qui imprigionati in una fissità composta che non tradisce mai sensualità, erotismo, stupore. Il gioco del ribaltamento è esangue. Cliché e codici del comico denunciano il loro conformismo, e verosimilmente ci si domanda come mai la bella Emma Stone si innamori del ruvido narcisista, Colin Firth, che la tratta da idiota e truffatrice per tre quarti della pellicola. L’intrattenimento leggero è comunque assicurato e ben confezionato, riscattato dall’idea di fondo, sintetizzata in una bella battuta: la vita è priva di senso ma non si può certo dire che sia priva di magia.