Oltre ai crolli di Pompei e alle devastazioni del clima, il 2014 ha portato la riforma Franceschini. Riforma, parola abusata da una politica che assomiglia al dantesco rigirarsi senza requie del malato per “fare scherma” al suo dolore.

Oltre ai crolli di Pompei e alle devastazioni del clima, il 2014 ha portato la riforma Franceschini. Riforma, parola abusata da una politica che assomiglia al dantesco rigirarsi senza requie del malato per “fare scherma” al suo dolore.

Ma una parola può dire tante cose. Prendiamo ad esempio “tutela”. Nell’art.9 della Costituzione si legge : «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Si noti che qui la tutela riguarda il paesaggio e il patrimonio storico e artistico: boschi e colture, colline e spiagge, insieme a gallerie e musei, a pitture, sculture e siti archeologici. E ancora: quella tutela era inscindibile dallo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Nel legame fra tutti questi elementi si rivela lo sguardo lucido e l’intuizione lungimirante dei Padri costituenti. Senza lo sviluppo del sapere diffuso e della ricerca scientifica e tecnica non si dà vera tutela di musei e gallerie e siti archeologici, senza archivi e biblioteche non ci sarebbero documenti e libri per conoscere come si sono costituiti quegli assetti del paesaggio e come sono nate quelle opere d’arte.

Nell’Italia devastata del dopoguerra, dove tra le rovine ricominciava a vivere un popolo di analfabeti, i membri dell’Assemblea costituente affidarono alla Repubblica appena nata un compito immenso: elevare i livelli culturali, promuovere la ricerca, garantire la protezione (“tutela”) del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Durante la guerra e l’occupazione tedesca, c’erano stati tanti episodi di tutela: operai a difesa degli impianti industriali, archivisti, studiosi e semplici cittadini a difesa di codici antichi e di opere d’arte. Tanti segni di un senso di responsabilità verso quello che era sentito come un patrimonio comune. E’ una storia che non è mai stata raccontata e che bisognerebbe scrivere, oggi che ognuno saccheggia e privatizza quel che può.

Lo dicono statistiche inesorabili: in quest’ultimo anno, chiacchiere governative a parte, il paesaggio continua a essere la vittima di una cementificazione che procede alla velocità di 480 metri al minuto, secondo gli ultimi dati della Coldiretti. Della ricerca scientifica e tecnica è meglio non parlare. Dello stato di biblioteche e archivi nemmeno.

Intanto al posto di “tutela” è subentrato il termine “valorizzazione”. Al ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo c’è una “Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale”. Valorizzare vuol dire cavar soldi. Pompei, Colosseo, Uffizi sono le principali “macchine da soldi” – una definizione di Matteo Renzi, rivelatrice come poche della cultura dei nostri governanti. E di fatto la riforma del ministero introdotta quest’anno ha sganciato le “macchine da soldi” da tutto il resto, abbandonato a una crisi senza fine.

Nella miriade di archivi, biblioteche e musei che sono il patrimonio dell’Italia reale manca il personale, si ricorre al volontariato, nelle grandi biblioteche piove sui libri (accade a Firenze), dovunque si alzano barriere davanti al diritto dei cittadini di accedere ai servizi. L’attenzione del ministro è concentrata sull’ennesimo giro di valzer dei dirigenti all’interno di una geografia semplificata che promuove pochi grandi poli turisticamente fondamentali.

Un tempo si pensò che le Regioni potessero salvare il patrimonio culturale. Oggi tocca ai sindaci che si arrangiano come possono, appaltando a privati i monumenti, le strade e i ponti in cambio di soldi. A Roma si pensa in grande: per esempio, perché non trasformare il Colosseo in uno stadio con spettacoli veri? Anche perché i gladiatori ci sono già: quei giovani disoccupati mascherati da gladiatori che chiedono monetine agli ingressi dei monumenti romani sono un buon esempio degli sbocchi che l’Italia offre oggi al patrimonio vivo del Paese, i suoi figli. O almeno a quelli tra di loro che non hanno fatto a tempo a prendere posto sulla carrozza di prima classe di una politica diventata affare privato.

Proprio sullo scorcio dell’anno 2014 tra i dettagli minori dello scandalo della mafia capitolina è emersa una piccola storia rivelatrice delle strategie amorali dell’italiano eterno, quello del “tengo famiglia”. Alla Direzione generale per la valorizzazione siede oggi la signora Anna Maria Buzzi, sorella di Salvatore Buzzi, braccio destro del capo della “mafia capitolina”. Una famiglia che si occupa dei figli: nasce così la petulante candidatura della figlia di Anna Maria in un concorso presso lo stesso ministero della mamma, concorso falsato dagli interventi dello zio. La corruzione è entrata nel Dna del Paese, ha svuotato il “diritto di avere diritti” difeso da Stefano Rodotà e cancellato fino in fondo l’etica del “dovere di avere doveri” vanamente predicata da Luciano Violante nel suo parallelo intervento. è solo un minuscolo dettaglio nella storia di disastri e infamie dei beni culturali – il vero romanzo criminale italiano.

Tanti auguri per l’anno che viene. Ma se un lettore ci chiedesse: “Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?”, noi come il venditore leopardiano, risponderemmo: “Signor no, non mi piacerebbe”.