Non amo i gialli o noir, preferisco vederli al cinema, dove tutto si conclude entro un paio d’ore e non devo subire una macchina narrativa inutilmente complicata per scioglimenti finali quasi sempre deludenti. Ma ci sono eccezioni. Provate a mettere come detective un tenente colonnello cinquantenne degli alpini, friulano, per di più fidanzato con una writer romana di 23 anni, e già vi ritroverete con un elemento decisamente straniante.
Paolo Restuccia, regista de “Il ruggito del coniglio” e co-responsabile della scuola di scrittura “Omero”, ha inventato un bel personaggio, lievemente anacronistico ma del tutto credibile, per il suo La strategia del tango (Gaffi): Ettore Galimberti. E poi lo ha inserito in una intricata vicenda giallistica dai risvolti politici che per qualche aspetto mi ricorda i b-movie poliziotteschi degli anni 70, ad esempio il piccolo grande classico “La polizia ringrazia” di Steno (quando lo scoprirà Tarantino?). Stessa atmosfera claustrofobica, dove chiunque può tradirti e dove è il potere stesso a ordire le trame.
Il finale, che non posso (deontologicamente) svelare, è un beffardo happy end, liberatorio e cruento. Le qualità del libro sono un humour a tratti irresistibile (di un sardo, divenuto carabiniere, si dice: «forse perché scartato alla leva dei banditi»), poi un romanticismo appena dissimulato, la descrizione di una struggente storia d’amore – tra Ettore e Giulia – controintuitiva e al tempo stesso verosimile, e infine il pluringuismo dell’autore, la sua passione per diletti, gerghi, lingue straniere, strofe di canzoni (la colonna sonora spazia da Gardel al rap di Coolio).
La descrizione naturalistica – meticolosa (le macchie di cibo che ornano le tovaglie, le incrostazioni verdastre sullo spazzolino da viaggio) – e la sua fisionomia di “giallo da camera”(con pochi esterni) evoca il miglior Maigret televisivo d’antan. In fondo la certezza che sperduti nella folla metropolitana ci siano tanti Ettore Galimberti, con le loro contraddizioni ma fondamentalmente integri, è motivo di conforto civile. Alla fine Giulia esce di scena, però sappiamo che non è morta: si manifesta con le sue tag rosse sui muri, un po’ misteriosamente. Come l’utopia, che si può rappresentare non direttamente (diventerebbe retorica), ma solo evocandola.