Uscito nelle sale italiane il primo gennaio, il film di Clint Eastwood, America Sniper, è stato preceduto da polemiche su presunti finanziamenti da parte repubblicana e convinti elogi da parte di molta stampa americana.
E’ la storia di Chris Kyle, soldato dei corpi speciali Navy Seals, divenuto “Leggenda” per la mira straordinaria e la precisione impeccabile, grazie alla quale ha freddato 160 persone: questo il numero ufficiale, che in realtà potrebbe essere più elevato. Il biopic (a cui di recente la cinematografia statunitense ricorre sempre più frequentemente) è ispirato all’autobiografia del “cecchino” più letale della storia americana – come recita la tagline che promuove il film – edita in Italia da Mondadori.
Il tema è introdotto nel lungo flashback che vede Kyle bambino, educato dal padre a sparare ai cervi, a cui il devoto genitore insegna che gli uomini (le donne non sono contemplate) si dividono in tre gruppi: le pecore, i lupi e i cani pastore, che proteggono gli altri: su quest’ultimi è opportuno cada la scelta. Quando si parla di eroe della vicenda, si pensa in termini drammaturgici a colui che conduce la narrazione e muove gli eventi, ma, in questo caso, si tratta in senso letterale di un eroe americano, cresciuto nel segno della triplice alleanza “Dio, Patria e Famiglia”.
La vicenda è vista con lo sguardo di un regista conservatore, orgoglioso della sua appartenenza, narrata in modo semplice, se non proprio semplicistico, finanziata da un establishment, che preferisce eludere disinvoltamente le proprie responsabilità politiche ed economiche nei conflitti recenti, per privilegiare la retorica del combattente, che agisce per la salvezza dei commilitoni e il bene del suo Paese. E, in virtù di questa convinzione, all’inizio della carriera, colpisce, senza tremare, due bersagli mobili, un bambino e una donna, che portano una bomba rudimentale. Ma le tappe della formazione militare di questo giovane texano, devoto alla causa, il suo reclutamento, la sfiancante preparazione, la guerra, lo sbandamento del veterano, le difficoltà ad essere buon padre e ottimo marito, oltre che leale servitore dello Stato, non riescono a coinvolgere più di tanto. E non è la ripetitività dello schema a tenerci lontani dall’emozione, ma la mancanza di complessità e di umanità del tutto.
Eastwood, che in altri momenti ha analizzato con fine misura, virile compattezza e tocco romantico i miti della nazione americana, qui sdogana la guerra in Iraq con lo stesso facile manicheismo con cui la cinematografia statunitense degli esordi mostrava il conflitto tra cowboys e pellerossa. Al nemico, anche se vive nella sua terra e non è detto che persegua la morte, è negata ogni identità: è e resta un selvaggio, privo di spessore, parola, dolore e dignità.
In sintesi è il male, parola che in questi tristi giorni abbonda sulla bocca di molti sciocchi frequentatori del circo mediatico. Il bene, d’altro canto, nel film risulta essere la nazione americana, che si impegna a portare sull’altrui suolo la sua missione civilizzatrice e progressista e a vendicare le sue vittime. La sensazione è di trovarsi di fronte a un lavoro, in cui balena, coerentemente con la filmografia precedente, l’epica del dovere, della responsabilità individuale, dello spirito di abnegazione, ma rigidamente appiattita su posizioni conservatrici e certezze monolitiche, asfitticamente impotente di fronte alla diversità, di cui nemmeno si adombra un senso, tanto è forte la convinzione che coincida con un’ inferiorità atavica.
I silenzi storditi e le espressioni vagamente ottuse di Bradley Cooper, il corpulento attore protagonista, forse ci rivelano non tanto l’umanità dolente e l’intimità sofferta, intraviste da molta critica, quanto la sordità interiore e “l’assenza” mentale di chi ha aderito a un conflitto ambiguo, ingiusto, fatale per molti, così come l’esibizione di violenza e lo sfaldamento inevitabile che genera l’azione bellica restituiscono un po’ di verità alla grafica da videogame di certi passaggi combat movie e ad alcuni momenti di vita familiare esangui di affetti.