Sono ormai settimane che ho smesso di seguire l’attualità italiana. I dibattiti sul presidente della Repubblica e le solite discussioni fra partiti e movimenti che ormai non rappresentano più la società mi hanno portato a staccare la spina per qualche settimana. Sullo sfondo un Paese sempre più disinteressato che si arrabatta e tira a campare, sempre più sfiduciato, sempre più cinico e disincantato.
Per questa ragione mi voglio concentrare su una questione che è passata di moda. Una questione però centrale per capire l’incapacità dei partiti progressisti di reagire intellettualmente, politicamente ed economicamente a politiche di austerità competitiva assurde e disfunzionali. Si tratta della questione del valore. Che cosa dovrebbe muoverci all’azione politica? Per quale ragione dovremmo rimettere completamente in gioco le nostre convinzioni, la nostra visione del mondo? Quale obiettivo dovrebbe farci agire collettivamente?
La questione del valore è completamente sparita dal dibattito politico italiano (in particolare a “sinistra”), e la sua elusione rende questo governo un ennesimo passaggio inutile verso un futuro disastroso. Renzi mi ricorda sempre più quelle marionette che tanto mi piacevano da bambino; fili che muovono una figura di legno giocosa in mille direzioni, una figura però che non può uscire da una scatola.
La questione del valore non si poneva in epoca fordista. Dal dopoguerra agli anni Settanta lo schema era semplice. L’uomo lavorava in fabbrica o nel pubblico impiego, la donna restava a casa a prendersi cura dei bambini e degli anziani, e tutti (o quasi) giovavano direttamente e indirettamente della crescita economica attraverso aumenti salariali negoziati dalle forze sindacali. Certo sotto la superficie consensuale del compromesso fordista, si celava la questione dell’uguaglianza di genere e del ruolo della donna; ma ogni famiglia poteva arrivare alla fine del mese contenta, magari risparmiando un gruzzoletto da investire nella casa al mare o nell’acquisto di una bella Fiat. E questi acquisti sostenevano a loro volta la crescita.
Con la crisi degli anni Settanta, la crescita stagnante e la fine di un mondo basato sulla produzione estensiva in fabbrica (quantomeno nel mondo occidentale) è però crollato, assieme al potere di acquisto degli operai, anche quello di contrattazione di sindacati e partiti socialdemocratici. Fino a quando gli operai sono stati centrali nel sistema di produzione industriale, i sindacati sono stati in posizione di contrattare buoni salari e contratti collettivi per tutti. Con la fine progressiva di quel mondo economico, le condizioni sono cambiate radicalmente, e in un’economia dominata dai servizi si è ridotto lo spazio per la contrattazione collettiva, perché il lavoratore non garantisce più incrementi costanti di produttività.
Guardatela schematicamente. L’operaio che lavora con macchine sempre più sofisticate riesce ad accrescere la sua produttività. Questa crescita della produttività produce un reddito maggiore fra gli operai, ma progressivamente genera la riduzione della manodopera necessaria per produrre un bene. E così chi prima lavorava in fabbrica inizia piano piano a spostarsi nell’economia dei servizi. Servizi di alto livello e ben remunerati per alcuni (pochi direi), servizi di basso livello per la maggioranza.
Prendete come esempio gli impiegati di un fast food o quelli di un call center. Certo si potranno rendere efficienti le tecniche di suddivisione del lavoro, ma c’è un numero massimo di hamburger da servire o di telefonate a cui rispondere in un’ora, oltre cui nessun lavoratore può andare. E allora colpo di scena, il neoliberismo si adatta perfettamente a questo schema, rimpiazza progressivamente il keynesianismo, il consumo continua, ma non più sulla base della crescita economica, ma piuttosto su quella del debito (quello dei cittadini in alcuni Paesi e quello dello Stato in altri). I redditi stagnanti guadagnati nei servizi vengono sussidiati dal debito per continuare a consumare e tenere in piedi la baracca (fino alla crisi del 2008, durante la quale questo schema salta).
Nel passaggio dal fordismo all’economia dei servizi, in tanti abbiamo perso di vista uno dei più grandi insegnamenti di Marx: non si può comprendere un sistema economico e mettere in azione una forza sociale contrapposta a quella dominante se non si definisce che cosa ha valore. Se non si definiscono le ragioni per le quali individui con storie di vita diverse dovrebbero farsi racconto collettivo. E così le élite dominanti (tanto di destra, quanto di “sinistra”) continuano a proporre politiche di austerità competitiva che non hanno più alcun senso in un contesto economico di crollo della domanda interna, e i sindacati si arroccano sulla difesa dei contratti e dei diritti dell’era industriale. Nel contempo il Paese “reale” sbuffa e soffre, con precari senza protezione alcuna dal rischio di disoccupazione, pensionati poveri che stentano ad arrivare a fine mese, migranti che sostengono settori economici al collasso lavorando per quindici euro al giorno e disoccupati sempre più coscienti del fatto che non troveranno mai un lavoro. E nessuno riesce a mobilitare questa forza sociale repressa, che tutti ci dicono essere “una classe troppo eterogenea” per essere rappresentata da un nuovo progetto progressista.
Eppure, questa “maggioranza invisibile” ha tutto l’interesse a lottare collettivamente per misure redistributive e universalistiche. Per questa ragione resto profondamente convinto, in direzione ostinata e contraria alla vulgata dominante ed egemonica, che questa maggioranza invisibile può essere rappresentata da un progetto politico e sociale capace di dare valore all’individuo e alle sue attività sociali al di fuori dell’economia formale. Per farlo serve unirsi sotto la bandiera dei diritti universali, superando l’idea che i diritti siano un “bene” solo per chi è impiegato nell’economia formale.
Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che il genitore che si prende cura di suo figlio, l’anziano che racconta al nipote una storia, il migrante che lavora in nero hanno pari dignità del lavoratore con contratto a tempo indeterminato (ove questo ancora esista…). È solo ripartendo dall’universalismo e dalla questione del valore tanto a lungo ignorata che si può ridare forma all’idea progressista e collettiva, dando così rappresentazione sociale e politica alla maggioranza invisibile. È solo mettendo nel cassetto il keynesianismo, come una parentesi storica, che potremmo opporci al mantra neoliberista e andare al di là della società lavorista. è un passaggio complesso, molti “vecchi compagni” non lo capiranno, ma la maggioranza invisibile non ha altre strade da percorrere. Per fortuna, qualcuno in Europa pare averlo capito.
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