I pochi flebili indizi di recupero hanno ben poche possibilità di tradursi in crescita del reddito e dell’occupazione in assenza di opportune politiche di intervento pubblico.

Le cronache sull’economia italiana nell’ultimo periodo si sono popolate di notizie sulla tanto annunciata fine della crisi del nostro Paese, generando (comprensibilmente) molte aspettative, ma altrettanto scetticismo. Non è, per la verità, la prima volta che ciò accade, ma è certamente vero che, allo scorrere di una crisi dura e profonda, gli effetti cumulati della recessione moltiplicano il valore dell’attesa. E dopo tutta una serie di riprese che dovevano essere dietro l’angolo, ma che sono state immancabilmente smentite, diventa ancora più importante capire in che misura i nuovi annunci riusciranno a trovare conferme nel futuro prossimo.

Se leggiamo gli ultimi dati diffusi dall’Istat sulla produzione industriale, il quadro appare contrastante: mentre a livello annuale viene segnalato il terzo rosso consecutivo, sebbene di entità più limitata rispetto ai due precedenti (-0,8% è la variazione di fine anno del 2014 sul 2013, -3,2% quella del 2013 sul 2012 e -6,4% quella del 2012 rispetto al 2011), a livello congiunturale sembrerebbero emergere segnali più confortanti con un aumento dello 0,4% rispetto a novembre e dello 0,1% rispetto allo stesso periodo del 2013.

Quale fiducia può essere tuttavia riposta in miglioramenti di simile entità e – soprattutto – su base congiunturale? A questo proposito un’idea più netta possono darcela i rilievi del quadro di sintesi fornito dalla Commissione europea, che non contempla nessuna variazione del Pil nazionale per il 2015 tra autunno e febbraio, a fronte di un gap di crescita rispetto al resto dell’Europa che è andato aumentando nel corso del tempo, arrivando nel 2014 a sfiorare quasi i 2 punti percentuali (in meno) rispetto alla crescita del resto d’Europa.

Una divergenza che si è andata cumulando dal 1996, che oggi si traduce in una crescita minore dell’Italia sull’intero periodo pari a quasi 19 punti percentuali e che trova indiscutibilmente riscontro nella progressiva contrazione della produzione industriale. Tra il 2009 e il 2013 tutti i Paesi europei (eccezion fatta per la Germania che è rimasta quasi ferma) hanno sperimentato una significativa erosione della propria base industriale, ma l’entità di quella italiana è tra le più elevate (-23%), superata solo da Grecia e Spagna che si aggirano intorno al -26%. Ma c’è di più. Uno spaccato più preciso di questa dinamica ci è infatti fornito dalla fortissima contrazione della produzione di beni capitali (-26,7% nel periodo della 2009 – 2013), la componente a più alto valore aggiunto del tessuto produttivo, che ha costantemente perso terreno fin dagli inizi degli anni 90, diversamente da quanto accaduto (in media) in Europa.

A fronte di questa incessante erosione della nostra base industriale è dunque evidente che i pochi flebili indizi di recupero da poco registrati hanno ben poche possibilità di tradursi in crescita del reddito e dell’occupazione. E che anche tutte le speranze riposte negli attuali vantaggi offerti dalla diminuzione dei prezzi energetici, dalla svalutazione dell’euro e dalla riduzione dei tassi di interesse non sono in grado di sortire, da soli, gli esisti sperati. Ma non è pensabile allora immaginare di incidere sulle possibilità di crescita del Paese affidando la ripresa della sua industria alle forze del mercato.

E’ necessario, invece, puntare su una sua profonda ristrutturazione, mirata allo sviluppo di settori tecnologicamente avanzati ad alto valore aggiunto, rispetto ai quali la capacità di traino della domanda è maggiore. Un’operazione difficilmente realizzabile.