Ho sempre pensato che se nell’articolo 1 della Costituzione si era deciso di scrivere che la nostra Repubblica democratica era fondata sul lavoro, era perché del lavoro non si aveva la stessa concezione, per esempio, di Karl Marx. Non lo si immaginava per forza alienato, prodotto di un capitalismo efferato, né funzionale alla sola soddisfazione di bisogni materiali.
Per questo in quella stessa Costituzione – per me – subito dopo c’era l’articolo 2. Perché al contrario si riteneva il lavoro fonte di realizzazione, di “libero sviluppo della persona umana” che la Repubblica doveva tutelare per garantire uguaglianza e libertà. Per anni, non ho immaginato un altro modo di “concepire” il lavoro se non come “libero sviluppo della persona umana”.
Da piccola avevo un libro, una fiaba in cui si raccontava di un uomo povero, costretto a fare l’elemosina per sopravvivere e di un bimbo che chiedeva al padre i soldi da dare al povero. E poi del padre che invece dei soldi, decise di costruire una canna da pesca e di insegnare al povero a pescare. Il senso della fiaba era che continuando a fare l’elemosina avrebbe lasciato il povero, povero. Mentre insegnandogli a pescare, lo avrebbe reso un uomo libero. Sull’ultima pagina del racconto, indimenticabile, c’era l’immagine del povero che pescava felice. Si vedeva dal sorriso. (E io sapevo che non avrebbe più avuto bisogno di elemosinare).
Lavoro e libertà, insieme. Di pari passo, perché se uno restava indietro saltava anche l’altro. Lavoro inteso come garanzia di uguaglianza di libertà. E libertà intesa come possibilità di realizzarsi. Questa era la mia idea di “essere di sinistra” quando ero piccola. Tutti uguali e liberi. E per essere liberi non bisognava dover “elemosinare” nulla. Da nessuno. Lavorare ha voluto dire per anni studiare, specializzarsi, poi trovare “lavoro”. I bisogni certo, per vivere decorosamente, ma mai distinti da tutto il resto che era anche e soprattutto quello che si pensava nel tempo più o meno libero.
Non ho distinto per anni, non ho pensato neanche fosse giusto dover distinguere. Ho studiato e lavorato pensando che il mio tempo libero sarebbe stato invaso dal lavoro, mia realizzazione, e il mio lavoro sarebbe stato invaso dal tempo libero (affetti, curiosità, passioni…), ugualmente mia realizzazione. Poi la vita. O meglio la realtà della vita che non è sempre la verità. Dalla realtà dei due tempi, prima il lavoro (per i bisogni) e poi il tempo libero (per le esigenze), alla distruzione di qualsiasi sintonia o sinergia tra lavoro e libertà, fino allo smantellamento progressivo di qualsiasi idea di lavoro “ricco”, qualificato, umano.
Il “lavoro” oggi, se c’è, è grasso che cola. E per la maggior parte è povero, precario, spezzettato, mercificato, globalizzato. Un lavoro «cattivo» scrive Craviolatti, a tal punto che c’è chi non lo cerca più (i famosi Neet) e chi invece vive solo di quello, eliminando il resto della vita. «Il problema – mi diceva un mio caro amico – non è quanto ti pagano ma se hai qualche ora in più per leggere Omero…». “Lavorare meno, lavorare tutti”, non è una frase fatta, non è un calcolo distributivo (certo utile di questi tempi), né una citazione tout court di Serge Latouche. È piuttosto, per noi, la fusione inedita tra il teorico della decrescita felice che da anni va dicendo “lavoriamo meno per essere più felici” con il segretario della Fiom Maurizio Landini che in un pomeriggio del 2013 chiuso in un teatro per colpa di Left, gli rispose “ma se non sono felice del mio lavoro non sono felice neanche fuori”.
Allora, senza retorica e con linguaggio asciutto proveremo a raccontarvi perché con il Jobs act i lavoratori saranno più uguali «nel peggio». Perché è pericoloso guardare al modello tedesco dei “piccoli lavoretti”. E perché «l’attacco al lavoro è in verità un attacco alla libertà», come ci raccontava l’eco-nomista Ernesto Longobardi non molto tempo fa, «se non c’è il tempo lavoro, non c’è neanche il tempo libero, semmai rimane quel “tempo vuoto” di cui parlava Bruno Trentin». “Non lavorare tanto”, allora, ma “in tanti” e “bene”. «E così torniamo alle rose», ha ragione Craviolatti.
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