Non solo il governo, ma anche i sindacati della scuola devono fare autocritica dopo l’ultima denuncia dell’Ue sull’abbandono in cui versa il nostro sistema di istruzione. I numeri rivelano impietosamente le incongruenze tra i proclami e l’azione dell’esecutivo e, al contempo, alimentano dubbi e sospetti intorno agli inoffensivi sindacati di categoria che, di fronte a quei dati, dovrebbero assediare permanentemente il ministero.
A metà marzo, dunque, la Commissione Libertà civili e affari interni dell’europarlamento ha chiesto al governo italiano di investire sulla scuola perché «l’istruzione è cruciale per essere competitivi nell’economia globale». La motivazione suona particolarmente beffarda perché sembra riprendere alla lettera certe frasi ad effetto della Buona scuola o delle slide del premier.
In realtà, come si legge nell’ultimo rapporto della rete Eurydice, l’Italia è il Paese europeo che spende meno per l’istruzione: il 9,05%, (la media Ue è al 10,84%). Le intenzioni di chi ci governa emergono ancor più chiaramente considerando che la nostra spesa per l’istruzione equivale al 4,7% del Pil, (media europea: 5,44%). Utile il raffronto con l’Irlanda che, pur non passandosela meglio di noi, spende per la scuola il 6,5% del proprio Pil. Nello stesso rapporto si segnala che gli insegnanti italiani, anche se sono fra quelli che lavorano più ore, sono i meno pagati d’Europa. In questo caso un confronto significativo si può fare con il Portogallo, dove gli insegnanti arrivano a guadagnare, tenendo conto del potere d’acquisto, il 40% in più dei colleghi italiani.
Insomma ce n’è abbastanza per chiedersi perché i sindacati di categoria non stiano permanentemente sulle barricate. Invece, persino i moniti sull’impoverimento del nostro sistema scolastico dobbiamo sentirli innanzitutto dalle commissioni dell’Ue. D’altra parte, pare che il massimo degli sforzi sindacali consista nel convincere i lavoratori della scuola che, se è vero che sono trattati male, è anche vero che potrebbero essere trattati peggio. Oltre che ad autolegittimarsi, i nostri sindacalisti amano impegnarsi in una continua conflittualità con le altre sigle.
C’è pure da considerare che l’attuale sistema di rappresentanza favorisce la formazione di burocrazie sindacali sempre più lontane dai lavoratori. Infatti, come può trovare spazio il dissenso nei confronti di sindacati appiattiti sulle posizioni del governo, se le scelte dei lavoratori non sono affidate a liste nazionali ma a liste decentrate, che nelle circa 10mila scuole possono permettersi solo i sindacati più strutturati? Per essere rappresentati in tutte le scuole, ci vorrebbero 60mila presentatori, più di quanto richiesto per proporre in Parlamento una legge di iniziativa popolare. Inoltre, in violazione dello Statuto dei lavoratori, per le nuove sigle sindacali non è possibile tenere assemblee in orario di servizio.
Con un simile scenario, reso possibile dal dl 396/97 (Prodi I) e dal dl 165/01 (Amato II), è praticamente impossibile per un sindacato nuovo sedere al tavolo della contrattazione. La chiusura verso ogni novità sindacale e la mutazione burocratica dei sindacati tradizionali sono facilitati anche dal fatto che il calcolo delle preferenze su scala nazionale comprende non solo i voti ma anche gli iscritti, che ovviamente sono più numerosi nei sindacati tradizionali, con le truppe di distaccati e la facoltà di fare propaganda in orario di servizio.