Ammiro Antonio Moresco. Non lo dico per captatio benevolentiae all’inizio di una stroncatura. Ammiro il suo drammatico corpo a corpo stilistico con la materia impura, liquefatta, pulsante del reale.
La sua trilogia – che ho letto solo in parte (ora al terzo e conclusivo volume: Gli increati) – mi appare come un tentativo eroico, una spericolata catabasi in cui l’autore attraversa l’inferno della contemporaneità e dà voce a una percezione nuova e destabilizzante. In ciò rischia molto. A volte, come in un grandioso autodafè, la lingua stessa – che vorrebbe attingere una “oggettività” del caos – è imprigionata dentro un’immaginazione claustrofilica. Quasi non ci parla più del mondo, di noi, della condizione umana – come invece (per citare un autore non distante da queste pagine) lo stile magmatico di Céline – ma solo di se stessa, entro un dormiveglia allucinato.

Poi: la morale della favola è invitarci a credere ai nostri sogni più belli ed essergli fedeli, a seguire la scia luminosa della luna (la quale, al contrario della luna leopardiana, è alquanto verbosa e ci fa la lezione!). Ma perché mai i nostri sogni dovrebbero essere migliori di noi? Dei nostri sogni si occupa molto la pubblicità. Al contrario, bisognerebbe rivalutare la realtà, perfetta, nella sua imperfezione, più di ogni sogno ed utopia.
A ben vedere il vero (e involontario) personaggio fiabesco potrebbe essere lui, Moresco, un Cavaliere della Scrittura in una lotta dall’esito incerto contro il Drago dell’Irrealtà mediatica.



