Facciamo piano piano e con grande calma, ma cerchiamo di rincastrare qualche ragionamento di base, così tanto per cominciare ad erodere un po’ di imbecillità.
Per esempio partiamo da un assunto semplicissimo e cioè che se esistono trappole del sottosviluppo che generano povertà in Italia, in Europa e nel resto del mondo, questo non è legato ad accidenti, o a quello che per l’ennesima volta Scalfari nel suo editorialone della domenica chiama «epoca dominata dall’egoismo dell’animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l’istinto animalesco e la coscienza», ma è legato a scelte sbagliate di precisi governi fatti da pochissimi uomini che, in effetti, oscillano tra errori e disonestà. Almeno intellettuali.
Ve lo dico con grande convinzione e un tocco di pessimismo, come esistono meccanismi perversi tra potere economico e potere politico che determinano la scelta di mantenere lo stato delle cose dei “pochi pochissimi”, così esistono altrettanti meccanismi perversi tra cultura dominante e sistema dell’informazione per mantenere lo stesso stato delle cose di altrettanti pochi pochissimi. Allora è bene ripartire dalle basi: dai ricchi e dai poveri. Vecchia espressione forse, che usiamo per raccontarvi perché si è sbagliato e quanto. E quali sono i trucchi usati ancora oggi: tesoretti, bonus, numeri di nuovi occupati a vanvera. Miracoli, concessioni dall’alto. Veri illusionismi che continuano a produrre disuguaglianze e povertà. Perché disuguaglianze e povertà si vogliono produrre. E disaffezione. Perché la gente non è scema, se ne accorge e si allontana. Pensa a salvarsi da sola. Finché può. Finché trova. Poi più.
Onesti. Ve lo abbiamo promesso, irragionevoli vi abbiamo scritto.
Eccoci qui: Chiara Saraceno vi spiega che «solo dai poveri ci si aspetta che siano disponibili a fare “qualsiasi lavoro”, a prescindere dalle loro competenze». La chiama la “povertà estrema”, quella in cui viene uccisa «anche la capacità di aspirare, di immaginare di poter cambiare la propria condizione». È una questione di sottrazione di risorse materiali ma non solo, è perdere il potere «di decidere su di sé, di controllo sul proprio orizzonte di vita, sullo stesso senso di dignità e valore personale». Lo chiama “schiavismo” invece il regista Mimmo Calopresti ma intende la stessa cosa: «Una sorta di marcia felice che pensa solo a quanto produci e che alla fine crea disastri». Nessuno conta più nulla, vogliono farci credere – insiste il regista -, né politicamente, né nei luoghi di lavoro, né nella società nella quale viviamo. E forse è proprio questa l’idea che c’è dietro. Quella che alla fine deve portare «a una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella di papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro» come scriveva, per l’ennesima volta Scalfari nel suo editorialone della domenica.
Misericordia e carità, null’altro salverà un’umanità povera per sua natura perché egoista per sua natura. Questo è l’illusionismo imperante del momento, culturale e poi politico. Per nulla di sinistra, vi avverto con altrettanta convinzione, e non perché la povertà sia un problema morale, o di mancata equità o giustizia sociale (anche), ma perché queste idee attaccano la democrazia. Escludono, allontanano, concentrano tra pochi. Impediscono una partecipazione “alla pari”, producono inadeguatezza umana che si traduce in inadeguatezza economica e sociale.
Banalmente, come vi racconteremo in questo numero di Left, questo modo di pensare che diventa fare, produce mostri, come lo smantellamento del welfare, sistemi di tassazione iniqui che continuano a scaraventarsi sulla vita dei molti che hanno meno e non “trovano” i pochi che hanno molto. Allora davvero, cominciamo a rincastrare qualche ragionamento di base e a erodere un primo pezzetto di imbecillità: misericordia e carità non equivalgono a diritti e giustizia sociale. E l’idea di una umanità cattiva/egoista per sua natura è incompatibile con quella di movimento e di uguaglianza. Con quel “capitale umano” di cui scriveva José Saramago che ti rende insopportabile l’infelicità altrui.
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