L’abuso di anglicismi nei documenti pubblici rende più oscura la comunicazione. Anche l’Accademia della Crusca si mobilita.

Si sa che la manipolazione politica della lingua oggi passa soprattutto attraverso l’abuso degli anglicismi. Un esempio recente l’ha fornito il ministro dell’Istruzione Giannini, che ha aggirato le critiche sui superpoteri del preside-sindaco previsti dal ddl sulla scuola, dicendo che crescerà la leadership ma non il potere dirigenziale.

Lo scorso febbraio, Annamaria Testa, pubblicitaria ed esperta di comunicazione, ha rivolto un appello all’Accademia della Crusca per sostenere una campagna di sensibilizzazione per un uso più responsabile della lingua da parte di chi ha incarichi pubblici. La lingua è un bene comune ed è compito prima di tutto di chi amministra i beni pubblici averne cura.

Non si tratta di una battaglia di retroguardia contro l’inglese. Si chiede di usare nei discorsi politici, nelle comunicazioni dell’amministrazione pubblica e delle imprese, oltre che negli articoli di giornale, al posto degli anglicismi, le espressioni italiane corrispondenti, per consentire a tutti di comprendere il messaggio. Come si spiega nell’appello, è un fatto di trasparenza e di democrazia. La Crusca ha subito aderito all’iniziativa e il presidente, Claudio Marazzini, ha previsto un sito dove trovare le alternative possibili ai forestierismi, l’organizzazione di un osservatorio sui neologismi e la ricerca dei modi opportuni per sollecitare le istituzioni ad un uso più consapevole della lingua italiana.

Dietro l’abuso dell’“itanglese” della nostra classe dirigente c’è l’idea che occorra sintonizzarsi con la lingua della tecnocrazia globale se non altro per seguire l’onda della modernità. Anche le riforme della scuola sono state sempre precedute da un’invasione di anglicismi, che hanno veicolato l’imitazione dello squilibrato modello educativo anglosassone.

Il documento della Buona scuola non fa eccezione. La riforma, infatti, dovrebbe far uscire la scuola dalla comfort zone, i concorsi inizieranno con una prova selettiva computer based, gli studenti affronteranno verifiche di problem solving e decision making e la formazione dei docenti sarà blended. Le scuole saranno rivitalizzate da design challenge, digital makers, living labs, agribusiness, gamification e hackathon. Tutti potranno giovarsi di Data school e Opening up education. Un’attenzione particolare alla policy, alla governance e al format, ma ancor di più, perché si tratta di soldi e di privatizzazione, a spending review, School bonus, School garantee, crowdfunding e voucher.

Inoltre, un’avventata imposizione dell’inglese sta disarticolando l’impianto disciplinare con il Content and language integrated learning (Clil), ovvero l’insegnamento in inglese di una materia curricolare. Anche chi, come Tullio De Mauro, auspica che l’inglese diventi la lingua comunitaria, sostiene però che il Clil vada introdotto con parsimonia e dopo una formazione dei docenti (che non è prevista adesso). E, come ha osservato Luca Serianni (“Salviamo la lingua italiana”, Il Messaggero, 31 marzo), il risultato paradossale di un passaggio indiscriminato all’inglese di alcune discipline sarà la perdita del lessico di quella materia. Chi studierà la matematica in inglese perderà, ad esempio, parole come teorema o isoscele. Più in generale, con l’esclusione di alcuni ambiti culturali e del lessico corrispondente, l’italiano diventerà un dialetto.