Final cut di Vins Gallico (Fandango), entrato nella cinquina dello Strega, sembra già un film, una fiction tv, una commedia ironico sentimentale da far girare, poniamo, al giovante talentuoso Sydney Sibilia (Smetto quando voglio). Ma alcuni passi evocano Muccino, ad esempio l’immagine che torna nel finale, e che prelude all’happy end: «Mery annuisce, sistema dietro l’orecchio una ciocca di capelli. Un istante dopo il ciuffo le oscilla di nuovo davanti la fronte…».
Nella nostra narrativa e nel nostro cinema c’è un gran ritorno del genere (peraltro italianissimo) della commedia: l’attitudine a rappresentare cioè i conflitti, anche aspri, del nostro presente, ma trovando sempre un lato comico (ed effusivo). Agli italiani, si sa, piace ridere, come diceva Flaiano. Penso ai romanzi di De Silva, Piccolo, Serra, Pascale, e ora dei più giovani Viola e Gallico (poi, sul versante opposto, raccontano la morte della madre, da Peano a Moretti). Ma torniamo alla commedia. La domanda è: perché non usare il genere – la sua “retorica” – per andare un po’oltre, per sfiorare la verità tragica che pure le cose contengono? Gallico ci prova, ma solo in parte.
L’idea narrativa è strepitosa. Lui ha una piccola eredità, acquista un’Ape e mette su una società – la Final Cut – che si occupa di restituire beni e effetti personali quando una coppia finisce. Il vero soccorso è psicologico più che materiale: la Final cut aiuta a dare il taglio finale. Il protagonista è armato di scatoloni e di una impeccabile professionalità che si traduce in sospensione di giudizio e soltanto un minimo umano di empatia. Ma il romanzo non è sempre all’altezza di questa straordinaria trovata iniziale, per ritmo e sviluppo delle storie. Solo qui e là affiora una riflessione meno effimera sull’effimero dell’amore, che è eterno finché dura, come recitava un film verdoniano, e sulla saggezza dell’accettare la fine di ogni cosa, in questo unico mondo sublunare in cui ci è dato vivere.