C’era un ragazzo che come me amava Lucio Battisti e Francois Truffaut… Viene voglia di parafrasare Gianni Morandi parlando de La fine di Marx (Zona contemporanea) di Filippo Agostini. Perché? Perché come una volta ha detto Pasolini niente come una canzonetta ci restituisce il passato, e infatti il romanzo oscilla tra sapori d’epoca evocati anche dalle canzoni e meditazione morale.
Attraverso un grande corteo – immaginario – da piazza Esedra a piazza del Popolo, il 58enne Tullio, detto Marx, rievoca la propria vita, tutti i cortei che ha fatto, i militanti di una volta, la lotta politica, le mode e il costume, la passione ideale poi dissolta.
Il rischio dell’album scolorito da reduci è sventato da una freschezza di tono ammirevole, e poi dal bilancio impietoso di Tullio, e dalla sua terribile scelta finale: ha in tasca il biglietto ferroviario di sola andata per Lugano, dove ricorrerà all’eutanasia.
Una scelta incongrua, dato che Tullio è allegro, vitale, pieno di umorismo, e soprattutto il romanzo è brulicante di personaggi, storie, amori, cibo, e insomma di vita. Qual è allora la versione di Tullio? La consapevolezza di aver fatto la propria parte, entro il generale fallimento di tutte le speranze di quegli anni. La sua è una disperazione fredda, apparentemente “razionale”.
Eppure vorrei dirgli, senza essere troppo predicatorio (in fondo resta un personaggio letterario): guarda che la Politica, la Storia, l’Impegno sono importanti ma la dimensione reale dell’esistenza è un’altra, legata al quotidiano e agli affetti, guarda che quella fede religiosa nella Rivoluzione si è trasformata, e non si è tradotta solo nella scelta di far carriera ma in una qualità delle relazioni, in tante piccole utopie…
Insomma: il suo gesto disperato ha una lucida coerenza, ma riduce forzosamente la vita umana a un’unica tinta, ad un’unica possibilità. Come diceva Chesterton, pazzo non è chi ha perso la ragione ma chi ha perso tutto fuorché la ragione!