Tra due settimane si vota in alcune Regioni. Questa campagna elettorale passerà alla storia soprattutto per la Campania. Il 18 aprile il premier Matteo Renzi, appena lasciata Washington, si trova in visita a Pompei. Sui giornali ci sono ancora le foto degli abbracci con Obama in America, mentre Renzi stringe a sé in un gesto di piena legittimazione, Vincenzo De Luca.
L’altro abbraccio. Con il candidato a governatore della Campania, in passato guardato con fastidio dal potere renziano, anche per una condanna (abuso d’ufficio) che, causa legge Severino, con tutta probabilità creerà un conflitto tra possibile risultato elettorale di vittoria e legittimo esercizio del potere, in quanto l’ex sindaco di Salerno sarebbe ineleggibile. L’8 maggio l’Huffington Post pubblica un’intervista a Roberto Saviano che commentando la composizione delle liste campane a sostegno di De Luca, polverizza il muro di gomma dei vertici del Pd sulla questione morale. «Le liste di De Luca – accusa – ricalcano le solite vecchie logiche di clientele».
La straordinaria drammaticità di quell’intervista è in un preciso passaggio. Il giornalista Alessandro De Angelis domanda secco: «Nelle liste del Pd e della coalizione che sostiene De Luca c’è Gomorra?». E Saviano risponde: «Nel Pd e nelle liste c’è tutto il sistema di Gomorra, indipendentemente se ci sono o meno le volontà dei boss». In quelle ore De Luca è ad Avellino, tappa importante della sua campagna, perché capitale del regno irpino di Ciriaco De Mita, il vecchio notabile della fu Dc imbarcato nel carrozzone del centrosinistra campano all’ultimo minuto possibile, proprio per drenare pacchetti di voti in più.
Raggiunto dalla notizia dell’intervista, De Luca scalcia: «Faccia nomi e cognomi ». Peccato che Saviano li ha fatti, a cominciare da quell’Enrico Maria Natale la cui «famiglia è stata più volte accusata di essere in continuità con la famiglia Schiavone». Nel Pd, al quartier generale del Nazareno e soprattutto a Palazzo Chigi, per giorni sul tema vige il silenzio, secondo la consolidata tattica renziana che prescrive di non affrontare argomenti spiacevoli.
Tra il 10 e l’11 maggio prima De Luca, poi il vicesegretario Lorenzo Guerini, ammettono: «Alcune persone avremmo potuto non candidarle, per opportunità politica certo, ma non sono mostri, anche se in passato sono state al fianco di Nicola Cosentino (l’ex ras campano di Forza Italia arrestato un anno fa per aver agevolato i sanguinari Casalesi, ndr)». E il 12, finalmente, Renzi ammette: «Alcuni nomi imbarazzano, non li voterei neanche sotto tortura».
Ma la questione morale stritola il Pd, già consolidato Partito Unico della nazione. Davide Mattiello, deputato dem, nel libro in uscita L’onere della prova (Melampo) sul lavoro della commissione Antimafia della passata legislatura, scrive: «È talmente interessante da farmi pensare che non sia stato un incidente il fatto di non riuscire a votare la relazione per il sopraggiunto, più che prevedibile, scioglimento anticipato delle Camere». Quella commissione, presieduta da Giuseppe Pisanu (Fi), lavorò sulla trattativa Stato-mafia e il periodo delle stragi negli anni 90. Pisanu spiegò che, a Camere ormai sciolte, non avrebbero potuto approvare una relazione. Ma la commissione era nel pieno dei suoi poteri e un’altra commissione d’inchiesta nello stesso periodo approvò una sua relazione. Per Mattiello quello scenario è stato «il preludio delle larghe intese: la prudenza forse allora ha suggerito a qualcuno di togliere di mezzo una possibile pietra d’inciampo, evitando di lasciare in eredità alla nuova legislatura un voto così ingombrante». Con questo peccato originale, forse, la questione morale non è un problema.
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