Un’insidiosa bugia mascherata da mezza verità sta avvelenando il dibattito pubblico sul ddl sulla scuola. La bugia: i docenti italiani non vogliono farsi valutare. La verità: i docenti italiani non vogliono farsi valutare in base alle vaghe e capricciose indicazioni di una classe dirigente incurante della qualità della scuola pubblica.
Ogni riforma che pretenda di definirsi “buona” dovrebbe essere sperimentata innanzitutto da chi la propugna. Ma chi sarebbe mai disposto a farsi valutare da chi non ha nessuna qualifica o preparazione specifiche per svolgere quella funzione? I primi ad essere liberati dal provarle sono gli ideatori e gli esecutori. Poi il privilegio tocca al corteo di commentatori celebranti
Ora questa “buona” riforma viene proposta da un governo che non ha legittimazione elettorale e potrebbe essere licenziata da un Parlamento di cooptati dalle burocrazie dei partiti, in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale. Però, non si sa come, i membri di questo governo si sentono particolarmente ferrati sui temi del merito e della valutazione. Esemplare la giravolta del ministro Giannini, ora fervida sostenitrice dell’adozione di un criterio quantitativo nella rilevazione delle prove scolastiche, come quello delle prove Invalsi, ma da docente e presidente della Società Italiana di Glottologia contraria all’uso della metodologia bibliometrica (cioè di un criterio puramente quantitativo) nella valutazione dei risultati della ricerca scientifica.
Quanto agli eroici opinionisti che portano in trionfo il ddl sopra le sabbie mobili del sindacato, certe lodi sperticate sarebbero più credibili se fossero precedute dalla notizia delle valutazioni a cui sono periodicamente sottoposti e del numero degli esami e dei concorsi che hanno superato per salire sulla tribuna dalla quale sdottoreggiano su scuola e merito. Perché non s’impegnano con analogo zelo contro l’egualitarismo rimunerativo, per esempio, dei medici o dei giudici? Conoscono il funzionamento della macchina ministeriale, capace di schiacciare competenze, esperienze, titoli e diritti?
Chi è stato precario sa quanto possa essere inaffidabile e perverso il congegno delle graduatorie, a causa di eccezioni, deroghe, riserve e ricorsi. Prendiamo il caso dei vincitori del Tfa, che in 10mila hanno superato una durissima selezione (gli aspiranti erano 138mila). Prima è stata assicurata loro la cattedra, visto che il fabbisogno stimato era il doppio del numero dei vincitori. Poi, la perfetta macchina meritocratica dello Stato ha consentito a 70mila docenti, tra quelli già bocciati nella precedente selezione, di superare un percorso abilitativo speciale che ha stravolto la graduatoria di merito precedente.
Come ci si può fidare di una classe dirigente che un giorno fissa un criterio di valutazione e un altro giorno se lo rimangia? Ci siamo dimenticati che Berlinguer, primo ad avventurarsi nel terreno sconosciuto della meritocrazia, aveva escluso dalla partecipazione al concorso per la progressione di carriera i docenti che non avevano maturato almeno dieci anni di ruolo, mentre oggi i suoi eredi calpestano il valore dell’esperienza maturata sul campo?