Dalla Nigeria al Kenya, dall’India al Bangladesh, dagli Stati Uniti alla Spagna. Attraversa più continenti il lungo viaggio intrapreso da Martìn Caparròs per raccontare «lo scandalo del nostro secolo»: la fame, che ogni giorno uccide migliaia di persone. Per rompere il silenzio su questo stillicidio quotidiano il romanziere e giornalista argentino ha scritto una sorta di «opera mondo», un volume di oltre 800 pagine intitolato La fame pubblicato da Einaudi, in cui l’inchiesta sul campo si nutre di dialoghi, racconti, vividi spaccati di vita, ma anche di flash back di carattere storico e di molti riferimenti letterari.
Esule in Francia e in Spagna durante gli anni della dittatura argentina (1976-83), lo scrittore ha studiando storia alla Sorbona e appartiene alla grande scuola della crónica, sudamericana. Che non ha niente a che fare con quel che intendiamo noi per cronaca, ma fonde reportage e letteratura. Un genere portato ai più alti livelli da Rodolfo Walsh, giornalista argentino desaparecido nel 1977, autore di Operazione massacro (La Nuova Frontiera) in cui ricostruiva la storia di una strage di civili compiuta dalla prima giunta peronista. È stato uno scrittore «di grande spessore umano e culturale», ricorda Massimo Carlotto nella prefazione di Variazioni in rosso che raccoglie un trittico di racconti firmati da Walsh uscito in Italia grazie alle edizioni Sur.
Il rigore, il coraggio, d’investigare passando, se occorre, dal giornalismo alla fiction, è anche ciò che contraddistingue il lavoro di Martìn Caparròs, da No velas a tus muertos, in cui ha raccontato l’Argentina del ‘79 fino a Non è un cambio di stagione (Edizioni Ambiente 2011), in cui smascherava iniziative ecologiche politically correct, messe in atto solo per avere la coscienza a posto. E se trattando un tema “verde” Caparròs metteva in primo piano le esigenze delle persone rispetto ad una astratta ed estetizzante tutela dell’ambiente, ne La fame, smaschera potentati economici e politici che usano la fame come strumento di ricatto. Oppure considerano un «accidente collaterale» che milioni di persone muoiano di fame e ben 805 milioni di esseri umani la patiscano ancora oggi.
Così un tema duro, scomodo, per giunta adulterato dalla demagogia delle charity e da rockstar in cerca di auto promozione, diventa in questo nuovo libro di Caparròs materia incandescente, un flusso narrativo di oltre 700 pagine da cui è difficile staccarsi. La denuncia delle responsabilità del ricco Occidente emerge dai dati, dalle testimonianze, dalle analisi ma anche da una scrittura viva e serrata che non concede nulla al luogo comune. «Evitare ogni demagogia e i luoghi comuni era nelle mie intenzioni, ma non è stato facile» dice lo scrittore argentino nei giorni scorsi a Perugia per partecipare al festival Encuentro (dedicato all’eredità letteraria di Marquez). «Perché la fame pare proprio uno dei più triti luoghi comuni. Dietro i quali ci nascondiamo per difenderci dalla verità. Ma per fortuna ciò che più mi piace fare è ascoltare. E se vai in un posto, magari lontano, le persone hanno voglia di parlare con chi li ascolta davvero. Certo non volevo fermarmi a questo. Perché questo libro fosse utile, incisivo, sortisse degli effetti dovevo mixare queste storie con dati oggettivi e approfondimenti che ti facessero sentire che stai cominciando a comprendere e ti dessero la voglia di saperne di più».
«La fame non fa notizia», lei scrive. Fanno notizia le carestie, ma non lo stillicidio quotidiano delle morti “silenziose” per fame…
Non rendersene conto è facile, perché non si tratta di un evento, è qualcosa che accade ogni giorno. Apparentemente non c’è nulla da dire, «è la norma». Ma sono esseri umani come noi ed è inaccettabile far finta di niente. È questo chiudere gli occhi che volevo tentare di impedire scrivendo questo libro.
Nella storia la fame del popolo è stata usata dal potere. Nell’antica Roma, come sotto il fascismo, le distribuzioni di derrate servivano per tenere buono il popolo. L’opulenza e lo spreco del banchetto del Satyricon di Petronio andava perfettamente a braccetto con il suo opposto. È ancora vero tutto questo?
Ovviamente tante cose sono cambiate. E abbiamo pensato che la fame fosse una questione risolta in Occidente. Ma ci stiamo dolorosamente accorgendo che non è così. Per esempio in Spagna, con la crisi, il problema sta drammaticamente riemergendo. Negli ultimi cinque anni è ridiventata un tema politico, mentre fin qui era un problema confinato alle questioni “umanitarie”. Invece le emergenze umanitarie sono le questioni politiche più stringenti.
Abbiamo parlato di uso politico della fame ma c’è anche un uso religioso. Nel suo libro lei denuncia la rassegnazione favorita, per esempio, dall’induismo e dalla religione cattolica
La religione approfitta delle persone che soffrono la fame: la fede in qualche modo serve a sopportare la fame. La religione ti offre facilmente un rifugio, non aspetta altro. Nel libro cito una frase di Madre Teresa di Calcutta che da questo punto di vista mi sembra straordinariamente chiara: «E bellissimo vedere i poveri che accettano la loro sorte, che la subiscono come la passione di Gesú Cristo. La loro sofferenza e di grande aiuto per il mondo». Lo ha ripetuto più volte. Ecco trovo veramente inaccettabile questo incoraggiamento alla rassegnazione. Restare poveri, morire di fame, rassegnarsi è bene perché la ricompensa è nell’aldilà. Questo è ciò che la religione vorrebbe imporci di pensare.
Premio Nobel per la pace nel 1997, Madre Teresa riceveva finanziamenti milionari e ascolto internazionale, ma come denunciò Christopher Hitchens nel libro inchiesta La posizione della missionaria (Minimum Fax) teneva questi soldi in conti esteri privati. Nel suo libro lei racconta di aver visto il suo “moritorio” dove la gente poteva morire in modo ordinato…
Sono stato a Calcutta nel 1994, lei era molto famosa. E anche se aveva già fondato molti conventi nel mondo, non aveva costruito nessun ospedale. Nel suo “quartier generale” non offriva alcuna attenzione medica alle persone malate che aveva raccolto per strada. Anzi nel suo“moritorio” le persone morivano di patologie per le quali da anni non si muore più. E questo accadeva per la sua ideologia. Ciò che era importante per lei, era che tu morissi bene non che tu vivessi bene. E questo è davvero spaventoso. Madre Teresa usava l’aura di santità che era riuscita a ottenere: i santi possono dire quello che vogliono, dove e quando vogliono. Usava quel biglietto da visita per portare avanti le sue campagne: in primis la lotta contro l’aborto e la contraccezione. Nonostante tutto questo ricevette fiumi di premi, donazioni, sovvenzioni per le sue imprese religiose. E non rese mai pubblici i conti della sua impresa.Ma è più facile chiudere gli occhi. Tanta gente preferisce pensare che fosse tanto buona. Oggi accade qualcosa di analogo con papa Bergoglio, che per altro è assai piú potente. Così l’ex cardinale peronista, “tanto buono”, cerca di risollevare un’istituzione in caduta libera.
Venendo all’ultima parte del suo libro in cui lei racconta la dura realtà del Bangladesh, ma anche gli effetti di certo neoliberismo Usa, potremmo dire che ci sia un interesse economico nel mantenere situazioni di fame? Per dirla con una sua citazione da Amarthya Sen, come possiamo fare per non essere gli invitati al banchetto di Nerone?
Non c’è un interesse economico nel mantenere la fame ovunque. In molti casi, nella maggioranza direi, la fame è un “effetto collaterale”. Non è nemmeno una cosa cercata, semplicemente “accade”. E nessuno ci bada. E questo, se vogliamo, è ancora più spaventoso. Se sei a Chicago e vuoi fare affari, speculando, alzi il prezzo del mais e non ti preoccupi se milioni di persone per questo soffriranno la fame, non ci fai caso, è un aspetto secondario. Noi occidentali ricchi viviamo in un modo che fa sì che molti altri muoiano di fame, ma non sprechiamo cibo apposta, non ci organizziamo la vita in modo che accada. Ma è vero anche che ci sono casi in cui la fame è determinata ad hoc, questo è il motivo per cui sono andato in Bangladesh. Volevo documentare questo fatto: è lo spauracchio della fame a far accettare un lavoro di dieci ore al giorno per sei giorni la settimana alle donne, ottenendo 20 euro al mese, e i padroni se ne approfittano .È ciò che è accaduto per lungo tempo anche nella nostra storia. Non possiamo far finta di niente.
[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel