Doveva essere il presidente del “Nuovo Inizio” nei rapporti tra l’Occidente e il mondo islamico. Aveva ripetuto, al momento del suo primo insediamento alla Casa Bianca, che ai primi posti nella sua agenda di politica estera ci sarebbe stata la “questione palestinese”. Il “presidente globale” si era fatto paladino dei diritti umani e aveva promesso che da presidente avrebbe agito per chiudere Guantanamo. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Nessun “Nuovo Inizio”, lo Stato palestinese è schiantato contro la politica di colonizzazione portata avanti dalla destra nazionalista israeliana, Guantanamo c’è ancora, e il mondo che aveva acclamato l’elezione di Barack Hussein Obama alla presidente degli Stati Uniti, e accolto con meno fervore ma con ancora qualche speranza la sua rielezione, è un mondo che si scopre ancora più ingiusto, destabilizzato, insicuro rispetto ai giorni dell’insediamento del presidente che aveva fatto di “Hope” e “Change” le cifre del suo mandato.
La realtà è un’altra. Ben peggiore. All’Obama sognatore si è sostituito, in politica estera, una fotocopia venuta male, quella di un presidente indecisionista, che promette e non mantiene, il leader che fissa “red line” invalicabili (vedi la Siria e l’uso delle armi chimiche da parte di Bashar al-Assad) ma puntualmente valicate come se nulla fosse. E’ l’Obama delle tante scuse, del dolore, del rincrescimento – ultima esternazione quella che ha fatto seguito al criminale bombardamento Nato-Usa dell’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan -. L’Obama che fa la voce grossa con la Russia di Vladimi Putin sulla crisi ucraina, per poi lasciare campo libero a “zar Vladimir” in Siria. Non si chiedeva a Obama di vestire i panni del “Gendarme” del mondo, – quando i suoi predecessori alla Casa Bianca l’hanno fatto, hanno provocato solo disastri, vedi Bush padre e figlio in Iraq), ma di essere un presidente coerente, conseguente, questo sì, era il minimo che ci si poteva attendere viste le suggestioni che avevano contrassegnato la sua salita ai vertici dell’America. Così non è stato. E la tragedia che investe il Grande Medio Oriente ne è la tragica testimonianza. Obama si è fatto vanto di aver portato fuori dal pantano iracheno anche l’ultimo marine, per una guerra che era stata di George W.Bush e non la sua, ma l’Iraq che ha lasciato è un Paese devastato, è uno Stato fallito, terra di conquista da parte delle milizie dell’Isis e degli altri attori regionali, a partire dall’Iran per finire con Turchia e Arabia Saudita) che non nascondono le loro ambizioni di potenza nella regione. E così il ritiro militare dall’Iraq, e le fallimentari scelte compiute sulla Siria, hanno trasformato un ritiro militare in una disfatta politica. Ecco allora, entrare in scena, l’Obama “rallentatore”, il “dietrofrontista”.
E’ il caso dell’Afghanistan. Il presidente americano è in procinto di annunciare la decisione dalla Casa Bianca. Da giorni giravano indiscrezioni di stampa secondo le quali Obama stava valutando di lasciare in Afghanistan un numero di truppe più alto del previsto, fino a 5.500 unità, anche oltre il 2016, ovvero la scadenza del suo secondo mandato. Era stato il “Washington Post” a riferirlo per primo citando fonti informate: a quanto risulta il presidente si sarebbe basato su un piano presentato lo scorso agosto dall’allora capo di stato maggiore interforze generale Martin Dempsey. Un cambio di rotta, dunque, rispetto a quanto deciso in precedenza e che viene stabilito dopo la ripresa degli scontri con i talebani nella regione di Kunduz (e la nascita di gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico.
Il nuovo programma prevede che i 9.800 soldati di Washington in Afghanistan restino nel Paese per gran parte del 2016 e che la loro presenza venga gradualmente ridotta. A un certo punto nel 2017, hanno riferito le fonti, i militari americani nel Paese caleranno a 5.500 e saranno di stanza a Kabul, Bagram, Jalalabad e Kandahar. Gli Stati Uniti hanno schierato le loro forze in Afghanistan 14 anni fa, con l’operazione Enduring Freedom all’indomani dell’11 settembre. In questi anni sono morti 2.372 soldati statunitensi, e decine di migliaia di civili afghani. Il dietrofront di Obama è il segno del fallimento di una strategia che nasce prima della sua presidenza, una strategia fondata sull’illusione che la forza militare potesse surrogare l’assenza di una visione politica; la forza come fine e non strumento, l’incapacità di vedere e puntare sulle forze sane della società civile afghana, puntando invece sul riciclaggio dei “signori della guerra” trasformati in improbabili leader politici e di governo. Un discorso che dall’Afghanistan può estendersi a tutti gli altri teatri di crisi di un mondo dove a crescere è solo l’”esercito” dei profughi (oltre 60milioni) e dove “Speranza” e “Cambiamento” non hanno diritto di cittadinanza.