Nuova giornata di tensioni in Israele e nei Territori, episodi di violenza, nuovi scontri (un morto a Gaza), aggressioni a colpi di coltello contro israeliani con diversi feriti e almeno tre aggressori uccisi dalle forze di sicurezza israeliane. Il Segretario generale dell’Oni, Ban Ki-moon ha effettuato una visita inattesa nella regione e chiesto alle parti di placare la violenza. Pubblichiamo ampi stralci di un’analisi-commento di Mattia Toaldo comparsa sul sito di @ecfr con il titolo di Understanding Israeli-Palestinian violence
(Il presidente di Israele Reuven Rivlin e Ban Ki-moon)
E ‘difficile immaginare quando l’attuale ondata di violenza e di rivolta in Israele e Palestina diminuirà. Ma è importante capire come la violenza sta accadendo e che piega stia prendendo. Se pure ciò che osserviamo oggi è una frazione di quanto visto con la guerra nel 2014 a Gaza o in Siria e Iraq, ci sono alcuni elementi che ci dovrebbero preoccupare.
Il primo è, naturalmente, l’età di coloro che sono coinvolti. Nella prima metà del mese di ottobre, nessuno dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane aveva più di 23 anni. Sono persone della ‘generazione Oslo’ nata e cresciuta dopo gli accordi del 1993-1995 che hanno dato origine all’attuale status quo: la divisione della Cisgiordania in diverse aree separate le une dalle altre e da Gerusalemme; la nascita dell’Autorità palestinese e delle sue forze di sicurezza; il progressivo impoverimento dell’economia palestinese e la crescente mancanza di libertà di movimento.
Questa può essere definita come “occupazione 2.0” in cui Israele non richiede una presenza militare diretta in tutti i Territori Occupati e tuttavia mantiene il controllo quasi totale sulla vita quotidiana dei palestinesi da limitare la loro libertà di movimento (…)
Per i palestinesi che vivono a Gerusalemme o per i cittadini palestinesi di Israele la sensazione di essere cittadini di seconda classe è stata rafforzata dall’esperienza sul campo, fatta di crescente discriminazione in base alla legge. Su base giornaliera, la legge israeliana e il discorso pubblico (con la notevole eccezione del presidente Reuven Rivlin) invia un messaggio ai palestinesi: “tu non appartieni a questo posto”. Questo produce un sentimento condiviso per tutti i palestinesi, che vivono sotto regimi giuridici diversi tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.
Questo porta alla seconda ragione di preoccupazione, vale a dire l’assenza di strumenti da usare per fermare la violenza. Nei Territori Occupati, l’Autorità palestinese è troppo debole e delegittimata per essere in grado di assumere il ruolo di “poliziotto” che gli israeliani si aspettano. In effetti, la vera domanda è per quanto tempo le forze di sicurezza palestinesi si dimostreranno impenetrabili alle correnti di rivolta. (…)
(Un ragazzo palestinese passa as metal detector nella città vecchia a Jaffa)
A Gerusalemme Est, la strategia israeliana negli ultimi due decenni è stata quella della “desertificazione politica”: tutte le organizzazioni palestinesi, che si trattasse dell’Olp o di un teatro di marionette, sono state eliminate. Questa distruzione di capitale sociale e politico ha lasciato metà di Gerusalemme priva di quei corpi sociali che sarebbero in grado di avviare anche una mediazione – che tra l’altro, non è tra le opzioni considerate da Israele.
Sul fronte israeliano, Netanyahu ha finora moderato gli impulsi violenti dei membri del suo governo che vorrebbero tenere una linea ancora più dura contro i palestinesi. Il primo ministro si è concentrato sul contenimento della rivolta, prendendo a prestito liberamente da una vecchia sceneggiatura: demolire le case dei palestinesi, arrestare quelli che lanciano pietre o molotov, aumentare la detenzione amministrativa, e così via. La sua coalizione, la più a destra nella storia del Paese, vorrebbe di più. Ma una escalation della repressione potrebbe accelerare ulteriormente la spirale di violenza. (…)
Tale approccio ha generato poco critiche dagli avversari politici. Netanyahu gode quasi di un “sistema a partito unico” in materia di politica estera e di relazioni con i palestinesi. Anche se ha nominalmente una maggioranza di soli 61 seggi sui 120 della Knesset, su temi che vanno dall’Iran alla Palestina questa sale fino a 102.
Sul versante palestinese, la situazione a Gaza è un potenziale acceleratore di violenza. La stragrande maggioranza della città non è mai stata ricostruita dopo la guerra dello scorso anno e vi è una grande parte della popolazione che non ha letteralmente nulla da perdere. Questo spiega le marce sul (e le violazioni del) confine con Israele e i conseguenti spari sulla folla da parte degli israeliani.
A Gaza, Hamas è stata sfidata e anche infiltrata da gruppi salafiti radicali che a volte riescono a entrare in possesso di parti dell’arsenale di Hamas – così si spiega in parte il razzo occasionale. Per quanto tempo Hamas può fungere da diga a queste fazioni dipenderà dalle alternative disponibili. Il Movimento di Resistenza Islamico è più isolato che mai a livello regionale, mentre i negoziati paralleli con Israele per porre fine al blocco della Striscia di Gaza e con Abbas per la riconciliazione nazionale non hanno portato da nessuna parte.
Per il momento, Hamas sembra essere concentrata a promuovere la “resistenza” in Cisgiordania per mettere in difficoltà l’Autorità palestinese e a tenere a freno la violenza a Gaza. Anche in questo caso, la domanda è per quanto tempo questa strategia terrà e cosa potrebbe far scegliere ad Hamas (o a qualche fazione all’interno del suo braccio armato) l’escalation.
(Militari israeliani durante scontri a Hebron)
Tre scenari possibili
In ultima analisi, per affrontare la situazione attuale Israele ha tre opzioni con infinite variazioni. La prima è quella di tenersi lo status quo, compreso un certo livello di violenza e insicurezza. Tutto questo implicherà l’aumento progressivo dei livelli di repressione (…) I costi umani e la sostenibilità di questa ipotesi sono discutibili e tuttavia è questa quella di gran lunga più probabile.
La seconda opzione è quella di attuare un piano negoziato per separare gli israeliani dai palestinesi. Ciò significa la creazione di uno Stato palestinese in cui, per esempio, non sarà Israele a decidere chi entra e chi esce. L’opzione “separazione negoziata” è molto improbabile dato che la strategia (bipartisan) israeliana degli ultimi tre decenni, è stata quella di confondere le linee, in particolare consentendo a un numero crescente di ebrei israeliani di vivere tra i palestinesi, sia a Gerusalemme che in Cisgiordania. (…)
La terza opzione è quella di riconoscere che tra il fiume Giordano e il Mediterraneo vi è ora, grazie all’espansione degli insediamenti, un unico spazio politico. E non si vuole tornare alla prima opzione, e alla violenza che comporta, si devono riconoscere pari diritti e doveri a tutti i residenti. Un’ipotesi molto improbabile data la tendenza attuale nella opinione pubblica israeliana.
L’Europa
Pur mantenendo il suo impegno per una soluzione a due Stati, l’Europa dovrebbe iniziare a discutere su come lavorare per garantire meglio i diritti umani di tutti gli individui che vivono in quello che è attualmente un unico spazio politico in cui gli esseri umani godono di diritti diversi sulla base di uno status giuridico che dipende dal gruppo etnico in cui sono nati. (…) E’ importante che la questione della parità di diritti umani per tutti coloro che risiedono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo entri a far parte della conversazione sul conflitto israelo-palestinese, non facendola dipendere dalla implementazione soluzione dei due Stati che, pur altamente desiderabile dal punto di vista europeo, non è sul tavolo nel prossimo futuro.
Nel frattempo, l’Europa può fare di più per preservare l’obbiettivo dei due stati attuando pienamente la legislazione Ue sull’esclusione di attività israeliane nei Territori palestinesi occupati dai legami crescenti tra Ue e Israele. (…) Non è solo una questione legale, è anche politicamente auspicabile perché potrebbe modificare le opinioni del pubblico israeliano, e offrire una soluzione pacifica, alternativa e basata sul diritto per modificare lo status quo.
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