Un viaggio verso Dubai per diventare domestica di una famiglia di emiratini si trasforma in un incubo. Che, a differenza delle altre, questa volta però ha un lieto fine.

Non tutte le donne del mondo sono uguali. Alcune sono più donne delle altre. “Più” nel senso che ancora, in molte parti del mondo, le donne si trovano ad affrontare più discriminazioni proprio sulla base del loro sesso. È quello che accade ad esempio negli Emirati Arabi e in particolare alle donne immigrate nel Paese per lavorare come domestiche. A Dubai le chiamano “le single”. Sfruttate e spesso violentate, vengono private del passaporto e costrette a rimanere a forza in un Paese in cui il sesso fuori dal matrimonio è un reato penale. Finendo per diventare vittime sia dell’aggressore che di una legge altrettanto spietata. Ciò che è accaduto ad alcune di queste donne è stato raccontato in un documentario intitolato “Donne in catene” prodotto da Bbc Arabic e presentato il 30 ottobre al Bbc Arabic Film Festival. Il film, che racconta la storia di 5 donne, verrà trasmesso sul canale Bbc News a partire dal 6 novembre. Questa è la storia di Monica, domestica filippina, emigrata negli Emirati.

Non solo negli Emirati. Le foto a corredo dell’articolo (ad eccezione di quella in apertura) fanno parte di un progetto della fotografa Gabriela Maj, fotogiornalista che racconta per immagini la vita delle donne afghane detenute in carcere per reati di zina, “contro la morale e legge di dio”. Il reato di zina è comune a tutti i Paesi musulmani che applicano la Sharia. | Foto Almond Garden © Gabriela Maj

Dal sogno all’incubo. Andata e ritorno

Non c’era molto da vedere nel villaggio che Monica si era lasciata alle spalle, non c’erano ospedali, scuole, niente strade illuminate, soprattutto non c’erano prospettive. La vita in un piccolo paese sperso nella parte rurale delle Filippine non era semplice, le risorse erano poche. Monica era madre di tre bambini e il marito a stento riusciva a mantenere la famiglia. Emigrare nei ricchi Emirati e trascorrere qualche anno nel Golfo a lavorare poteva essere una buona soluzione per guadagnare abbastanza soldi da garantire un futuro diverso ai suoi figli. Così Monica si convince, sale su un autobus e viaggia per 10 ore alla volta di Manila e di lì prendere un aereo per gli Emirati, dove lavorerà come domestica per una ricca famiglia del Paese. I paesaggi che in quei due giorni passano di fronte ai suoi occhi sono agli antipodi, diversissimi gli uni dagli altri e le campagne povere alle quali era abituata Monica lasciano posto ai grattacieli e ai ricchissimi centri commerciali di Dubai e Abu Dhabi.

Come nel caso di Monica anche queste donne spesso sono vittime di violenze e mentre i responsabili restano liberi, le loro vittime sono condannate a vivere tra le sbarre, a volte incinte e con poche speranze di un futuro per sé e per i propri figli. Uscite dal carcere rischiano la morte.

All’inizio è entusiasta, è felice di avere trovato lavoro in quel Paese che le sembra così pieno di opportunità, ma a poco a poco emergono le difficoltà: gli orari di servizio estenuanti, datori di lavoro che la umiliano costantemente, la lontananza dai suoi figli che si fa sempre meno sopportabile.
Oltre a Monica c’è anche un altro domestico, un autista di origini pakistane arrivato qualche mese dopo di lei. Un giorno i padroni di casa partono per una vacanza e la lasciano sola con l’autista. Quella stessa sera, mentre è in cucina, viene sorpresa alle spalle dal domestico.


VEDI ANCHE:

Il reportage “Dietro porte chiuse. Gli abusi fisici delle lavoratrici domestiche” di Steve McCurry

New York Times


 

Lui la fissa, ha un coltello in mano, lei è sola, grida, ma non può fare nulla. Di quella notte non racconta a nessuno, cova in segreto il dolore, la tristezza, la vergogna. E un figlio, visto che tre mesi più tardi si accorge di essere incinta.
Negli Emirati Arabi, dove è in vigore la Sharia, la legge islamica, il sesso al di fuori del matrimonio è un reato penale, punito con la prigione come l’adulterio, fornicare e l’omosessualità. Monica non ha testimoni e non può dimostrare di essere stata stuprata. La gravidanza si trasforma nell’ipotetica prova della sua colpevolezza, così cerca di nascondere il suo stato in tutti i modi e a qualsiasi costo mentre cerca una via di fuga da quell’incubo.

Sharia, zina e kamala: impossibile fuggire

La Sharia indica il sesso extraconiugale come reato di zina. Non esistono delle statistiche con i numeri ufficiali, di quanto siano frequenti le accuse per questo tipo di accusa. L’inchiesta di Bbc suggerisce che siano migliaia. Ad essere colpite maggiormente da condanne di questo tipo sono le donne asiatiche e africane immigrate negli Emirati alla ricerca di opportunità lavorative e per lo più impiegate come domestiche nelle case dei ricchi. Human Rights Watch ha dichiarato che la zina è una violazione dei diritti umani. Le pene previste per la zina, oltre ovviamente al carcere, sono, anche nel caso dei lavoratori domestici, fustigazione e lapidazione. Anche se ad oggi non è quantificabile quanto vengano applicate effettivamente queste pene. Esistono però molte testimonianze che possono far intuire la severità del trattamento nei confronti di chi ha praticato del sesso fuori dal matrimonio, nello stesso “Donne in catene” si mostrano delle immagini girate con una telecamera nascosta, in cui si vedono delle donne accusate di zina camminare in tribunale con delle catene ai piedi.

Un’altra testimonianza, attendibile e significativa, arriva dall’attivista arabo-americana Sharla Musabih, impegnata da più di 20 anni nella lotta per la tutela delle donne vittime di violenza negli Emirati Arabi. Sharla dichiara infatti di aver visto con i suoi occhi una domestica etiope, rimasta incinta dopo uno stupro come Monica, incatenata al letto dell’ospedale pochi minuti dopo il parto. La stessa sorte è toccata a un’altra donna di origini indonesiane, incatenata al letto dell’ospedale, dopo aver tentato la fuga dalla casa del suo datore di lavoro, che aveva ripetutamente abusato di lei, buttandosi dal balcone.
Incatenare le colpevoli di Zina per evitare che fuggano è una pratica comune negli Emirati, visto che per Monica e per le altre donne rimaste incinta in situazioni come queste, l’unica speranza per evitare una condanna è quella di nascondere la gravidanza e tentare la fuga.

Ma fuggire per un lavoratore domestico sembra molto difficile e lo è ancora di più se si è una donna. Infatti, negli Emirati, anche il diritto del lavoro ha norme particolarmente restrittive, nello specifico si parla di Kafala, una sorta di affido e “tutela sociale” secondo cui si sancisce che i domestici immigrati possano rimpatriare solo su espressa concessione del datore di lavoro che ha sponsorizzato il loro arrivo nel Paese. Una pratica che, unita agli abusi subiti costantemente dai lavoratori domestici, ricorda molto la schiavitù del mondo antico. Secondo Human Rights Watch – che in un report del 2014 ha intervistato 99 di su un numero totale di 146.000 lavoratrici domestiche impiegate negli Emirati Arabi – si arriva a lavorare fino a 21 ore al giorno, con straordinari non retribuiti, senza cibo e senza riposare. Alcune segnalano di aver subito abusi fisici o sessuali e quasi tutte sono state private del passaporto al loro arrivo.

Il ritorno

Nell’estate del 2014, Monica non riesce più a tenere nascosta la sua gravidanza, chiede alla padrona di casa di lasciarla tornare a casa, perché partorire lì avrebbe significato sicuramente catene e prigione, ma la “signora” non acconsente: «Perché dovrei lasciarti andare a casa? Non hai terminato il contratto». Monica si ingegna e trova un modo rocambolesco per fuggire.

Con un telefono cellulare che tiene nascosto in cucina contatta il conduttore di un talk show popolare nelle Filippine. E così, in diretta, chiusa nel bagno di casa del suo datore di lavoro, Monica racconta la sua storia a migliaia di telespettatori in ascolto, dello stupro, di essere incinta, della Zina, della paura, soprattutto della voglia di tornare a casa. L’eco mediatico è impressionante e si genera una discussione enorme intorno alla storia di Monica, tanto che il governo di Manila chiede spiegazioni a quello degli Emirati Arabi. In poche settimane ottiene il permesso di tornare a casa, dalla sua famiglia.
Un lieto fine che è anche tristemente un’eccezione a quello che accade nella maggior parte dei casi. Le strade per migliorare la condizioni di vita di queste donne esistono, da un lato, come in questo caso, accordi fra governi possono agevolare un cambiamento – proprio le Filippine hanno minacciato gli Emirati di non mandare più ragazze se non garantiscono stipendi adeguati, condizioni di vita dignitose e rispetto dei diritti umani. Dall’altro associazioni come Human Rights Watch stanno facendo pressioni perché finalmente il governo abolisca il sistema delle sponsorizzazioni che innescano quella che è a tutti gli effetti una moderna “tratta” degli schiavi legalizzata.


 

Parliamo di storie di donne anche su Left in edicola con Francesca Fornario, Chiara Saraceno e Ambraham Yehoshua

 

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