Ultima tappa del nostro viaggio al seguito dei migranti attraverso la rotta balcanica. Ritorniamo dove tutto è iniziato: in Ungheria, prima che Orban si chiudesse dentro le sue frontiere

In apertura, stazione di Mayar boj, Ungheria. L’arrivo di una donna afghana con suo figlio | foto di Michela AG Iaccarino

La puzza soffoca anche chi è lontano dai vagoni blindati dove viaggiano i migranti, schiacciati in piedi, piangendo e ridendo in pashtun, urdu, arabo, pharsi. I soldati gli stanno muti davanti, non rispondono: «È Croazia, Ungheria o Austria, ahi, fratello?». Intorno ai vagoni fermi da ore dai finestrini cadono piogge di pannolini sporchi, assorbenti, fazzoletti, cicche, bottiglie vuote. «Non siamo morti nella jungle war e moriremo qui?», è l’umorismo dei tre mediterranei siriani a mezzo busto dal finestrino per prendere fresh air. «Mi chiamo Ahmed. Studiavo chimica in Siria», dice qualcuno da un finestrino. «Anche io, tu dove?», chiede un altro ragazzo. La donna curda in fuga da Kamishli, Rojava, è l’unica a chioma scoperta e tinta bionda affacciata dal serpente blu sulle rotaie. È vietato parlare con loro, chi lo fa – se non autorizzato dal governo centrale a Budapest – viene allontanato. Ma le storie sui binari le urlano da metri di distanza: «Macedonia good, Croazia ok, Serbia mafia bad, Ungheria super bad». «Dove siamo? Perché aspettiamo? Siamo fermi da sette ore. Quando ce ne andiamo?». I migranti si affacciano, chiedono: «Frau Merkel? E questa è la Germania?».
Di quelle voci rimane l’eco. Per loro era quasi finita, ultima fermata prima della terra libera. Ci erano arrivati camminando, col coraggio dei polpacci. Era Ungheria ancora aperta, prima che Orban si chiudesse dentro i suoi confini, alzando filo spinato a ogni punto di frontiera. Era giorni fa, ora il baricentro del percorso è cambiato. Nessun migrante attraversa più i campi magiari perché la mappa del nuovo mondo si aggiorna più veloce delle dita sulle tastiere, dei tasselli sparsi di foto stampate, atlanti in fuga dalla prima all’ultima ora, dalla prima all’ultima pagina. Il caso ungherese è un’evidenza. Appena nasce un muro, nasce una nuova rotta. Se il Danubio è blu, la Drava è verde ma al tramonto ci mette poco a diventare grigia. È un fiume che si dirama come un serpente a sonagli, incrociando i confini ungheresi e croati e presto ghiaccerà, diventando terra ferma percorribile invece che una barriera naturale per i migranti. Appena arriva il “carico” si muovono pattuglie di 25 poliziotti ungheresi con guanti bianchi e mascherina sotto i berretti rossi, militari che gli stanno di fronte a gambe divaricate. Una cintura umana di uomini alti come muri, con spalle larghe e tre braccia, uno di ferro del kalashnikov: questa è la terra di frontiera bianca ungherese, fortino del partito neonazista di Jobbik. «I migranti sono una hot potato, ogni Paese li porta al successivo, la Macedonia alla Serbia, la Serbia alla Croazia, loro a noi. Non sappiamo quando arrivano, la polizia croata ci chiama e dice la cifra di uomini che ci sta mandando». La guardia di frontiera sta accanto al filo spinato e alle barriere di ferro, corridoi che convogliano siriani e iracheni direttamente ai vagoni. Neppure un passo in terra civile ungherese. «Dal 20 settembre più di mille al giorno», la guardia mostra il foglio dei dati: «Solo qui abbiamo superato i 13mila».


 

Il fotoreportage continua sul numero 43 di Left in edicola dal 7 novembre

 

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