America Latina, Africa, Asia e Stati insulari: la bozza di accordo sul clima in discussione dal 30 novembre alla Cop21 suscita le critiche dei Paesi del Sud del Mondo. Che denunciano: «Se non cambia il sistema è tutto inutile»

Non sono bastate 20 Conferenze sul clima per individuare e applicare misure realmente efficaci nel taglio delle emissioni. E la 21esima, alle porte, non promette nulla di buono. La preoccupazione emerge dalle dichiarazioni di capi di governo, leader politici, negoziatori e intellettuali di America Latina, Africa, Asia e piccoli stati insulari, tutti convinti che le proposte sul tavolo della negoziazione siano timidi correttivi, del tutto insufficienti, mentre servirebbe un ripensamento complessivo del modello economico e, di conseguenza, della perversa relazione nord-sud. Il contributo di queste aree del mondo all’aumento delle emissioni è molto ridotto: il 7% delle emissioni globali proviene da America Latina e Caraibi; appena il 3,8% dal continente africano. In prima linea troviamo gli 11 Paesi dell’Alba, Alleanza bolivariana delle Americhe, tra cui Bolivia, Venezuela, Cuba e Nicaragua, che insistono sulla responsabilità storica dei Paesi sviluppati e criticano i mercati di carbonio e le altre soluzioni di tipo finanziario. Nel 2010, dopo il fallimento di Copenaghen, questi governi assieme a movimenti sociali di tutto il mondo si riunirono a Tiquipaya, vicino Cochabamba, in Bolivia, per la prima Conferenza mondiale dei popoli sul cambiamento climatico e i diritti della Madre Terra. La dichiarazione finale conteneva critiche sferzanti ai meccanismi negoziali e alle cosiddette “false soluzioni” proponendo azioni radicalmente alternative. Nell’ottobre scorso, nello stesso luogo, una seconda Conferenza dei popoli si è celebrata in vista del vertice di Parigi. Il documento finale parla di «crisi strutturale del modello capitalista basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e dell’uomo» e di come sia necessario, per fronteggiare la crisi climatica, transitare verso un sistema economico e sociale basato sull’armonia tra comunità umane e natura. Tra le proposte: fissare il limite di allarme a +1,5 gradi anziché +2, riconoscere i diritti della natura e la loro complementarietà rispetto ai diritti dei popoli, risarcire i danni causati da eventi climatici estremi, istituire un Tribunale internazionale per la giustizia climatica, approvare una Dichiarazione universale dei diritti della Madre Terra, ridurre le emissioni differenziando le responsabilità e non basandosi su meccanismi finanziari speculativi. Pablo Solòn, già ambasciatore per la Bolivia presso l’Onu, negoziatore in seno alla Cop ed ex direttore della ong Focus on the Global South, critica il fatto che nessun punto della bozza di accordo stabilisce un limite all’estrazione di combustibili fossili, principali responsabili delle emissioni, mentre sarebbe necessario lasciare sotto terra l’80% dei giacimenti conosciuti per limitare l’aumento di temperatura entro i 2 gradi. Inoltre, ci si allontana dall’obiettivo “zero deforestazione” entro i prossimi 5 anni, che annullerebbe così il 17% delle emissioni globali. Altro gruppo di pressione è rappresentato dai paesi dell’Ailac, associazione indipendente di America Latina e Caraibi, che si è costituita come gruppo formale di negoziazione durante la Cop nel 2012 ed è composta da Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Perù e Panama. Ailac è favorevole ai mercati di carbonio come misura di riduzione delle emissioni, posizione fortemente criticata dagli altri Paesi del continente, e insiste sulla compatibilità tra impegni di riduzione e politiche di sviluppo.


 

Continua sul numero 46 di Left in edicola dal 28 novembre

 

SOMMARIO ACQUISTA