Lo Statuto dei lavoratori così come riformato da Elsa Fornero vale anche per gli statali contrattualizzati. Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24157 del 25 novembre 2015. Per prendere questa decisione i giudici hanno esaminato il caso di un dirigente licenziato per motivi disciplinari dal Consorzio area sviluppo industriale di Agrigento, che è un ente di diritto pubblico. Nel caso specifico, la Corte ha dato torto al datore di lavoro, confermando l’illegittimità del licenziamento già stabilita dal tribunale di Trapani e dalla Corte d’Appello di Palermo. Poi, la corte, si è espressa sull’art. 18 per gli statali: «L’inequivocabile tenore» del testo unico del pubblico impiego, «prevede l’applicazione anche al pubblico impiego cosiddetto contrattualizzato della legge 300/70 e successive modificazioni», ovvero dello Statuto dei lavoratori, incluse le riforme del governo Monti e dl ministro Fornero. La decisione dei giudici, quindi, si riferisce nello specifico alla riforma Fornero e all’articolo 18, ma giuslavoristi ed economisti non hanno dubbi: lo stesso principio vale per le nuove norme contenute nel Jobs Act, che rientra in quelle «successive modificazioni» citate dalla Cassazione.
La decisione della corte pone fine allo scontro di opinioni tra il governo e il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia, da una parte, a sostenere (e assicurare) la non applicabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici; e giuslavoristi ed economisti, dall’altra parte, a sostenere il contrario.
Con il contratto nazionale per il pubblico impiego ancora tutto da decidere, il ministro Madia non si arrende. E insiste: «Per il pubblico impiego l’articolo 18 non vale, perché c’è una differenza sostanziale che è il tipo di datore di lavoro». Secondo il ministro della Pubblica amministrazione, «il datore di lavoro privato ragiona con sue risorse, il datore di lavoro pubblico ragiona con risorse della collettività». E questo dovrebbe bastare a “sanare” quella che diversi giuslavoristi denunciano come elemento «discriminatorio» tra lavoratori del pubblico e del privato.
Infine, poniamo una lente d’ingrandimento su un determinato termine della sentenza: «contrattualizzati». La Cassazione si riferisce, come abbiamo visto, «al pubblico impiego cosiddetto contrattualizzato». Per rinfrescarci la memoria, cerchiamo il senso di questa parola. Per “contrattualizzazione del pubblico impiego” si intende il processo per cui si è deciso che i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici venissero disciplinati dal diritto privato, attraverso l’istituto della contrattazione collettiva. Il percorso di privatizzazione del diritto del lavoro pubblico è cominciato con le riforme del lavoro del 1992 e 1993, quando la disciplina comincia a orientarsi verso principi privatistici. Ad avviarlo è la legge delega n. 421 del 1992 e il conseguente decreto legislativo n. 29/93, poi ripreso e sviluppato a partire dal 1997 con molti interventi normativi: il decreto legislativo n.80 del 1998, il decreto legislativo n.165 del 2001, il decreto legislativo n.297 del 2002, il decreto legislativo n.150 del 2009. Ecco, è da un po’ che l’Italia ha deciso di “privatizzare” il diritto del lavoro pubblico.
Sono tante le norme che, come piccoli passi, hanno preparato il terreno. E il Jobs act – ci perdoni Antonio De Curtis – è ’na livella. Che anche questa volta appiana la questione al ribasso.
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