Se dovessi farmi un augurio, pensare a che forma dovrebbe avere il prossimo anno che tra qualche ora viene, non potrei evitare di ricordarmi di mio nonno Cleto, alla sera, nei giorni che vengono appena prima di capodanno. Stava fermo per decine di minuti, in salotto, come potrebbe stare ore una statua di sabbia quando non c’è vento, e fissava un punto qualsiasi che, potevi scommetterci, non era mica intorno ma dentro. Sì, dentro: seduto in un angolo nel suo costato. Con quello sguardo lì.
Non aveva mai raccontato della guerra, della prigionia o di com’era bella quell’Italia povera ma fremente di speranza; riuscivamo a sapere qualcosa di lui se capitava uno di quei compiti a scuola per cui interroghi il nonno. Poca roba: dettagli minimi, le vicende generali e un racconto anestetizzato prima di essere detto. Eppure bastava un suo cenno e subito gli ritrovavi il capitolo scritto in qualche parte della faccia, in una ruga che diceva della paura o in un angolo della bocca che aveva scritto di tutto il freddo. Gente così, i nonni della mia generazione, con la voce come sottotitoli di tutto il resto che comunque scorre.
Quando si incastrava zitto, il nonno, nei giorni ultimi di dicembre, l’ho capito solo dopo, stava seduto nel suo costato per fare l’inventario di tutte le storie che conteneva. Dentro quel silenzio c’era l’operosità polverosa e compita di chi infila faldoni attaccandogli le etichette sui dorsi, c’era dentro tutto lo sforzo di un muscolo, quello della melmoria, che al contrario di tutti gli altri si allunga invecchiando, agile con gli anni mentre tutto intorno si sclerotizza.
Ecco, se dovessi pensare ad un buon proposito per l’anno che viene vorrei che davvero si possa non dimenticare. Non dimenticare nemmeno le ingiustizie minime o i propositi più lontani. Tenere tutto. Ricordarsi bene di non dimenticare soprattutto gli anni da dimenticare. Come questo che passa. Come nonno.