Nel 2012 gli avevano arrestato il figlio per sbaglio – o meglio, il governo messicano aveva messo a segno un colpo, presentando davanti alle telecamere una persona presentata come il figlio di El Chapo, che si era rivelato essere un paffuto rivenditore di auto, forse collegato al cartello di Sinaloa, ma non certo il figlio di Joaquin “El Chapo” (il corto) Guzman. All’epoca fu imbarazzo enorme. Peggio andò dopo la seconda fuga di quello che viene considerato il più importante narcotrafficante del pianeta nel 2014. Nuova caccia e nuova cattura, due giorni fa. Anche stavolta la vicenda ha del grottesco: il motivo per cui le autorità messicane hanno catturato El Chapo è la sua voglia di vedere un film sulla sua vita, magari ispirato da Narcos, la serie su Pablo Escobar la cui seconda stagione sta per debuttare su Netflix.
Secondo Associated Press, infatti, la polizia federale messicana è riuscita a scoprire dove fosse il nascondiglio di El Chapo grazie ai contatti intercorsi tra questi e Sean Penn, con la attrice di telenovelas messicane Kate Del Castillo a fare da tramite.
Penn ha passato sette ore a intervistare Guzmán in un luogo X delle montagne messicane e poi ha fatto una serie di interviste di follow-up per telefono e video, tra cui il minuto pubblicato sul sito di Rolling Stone assieme al resoconto dell’attore regista americano (e qui sotto) nella quale Guzmán veste una camicia di seta blu e parla al suono di galline che razzolano.
In passato El Chapo, divenuto famoso per la sua capacità di organizzare fughe lungo tunnel e condotti delle fogne – usati anche stavolta per tentare di eclissarsi dopo che la sua casa era stata circondata – aveva negato di essere un trafficante ritraendosi come un contadino. Con Penn parle apertamente dei suoi traffici.
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Dove è cresciuto, tra le montagne dello stato di Sinaloa, sostiene «l’unico modo per avere i soldi per comprare il cibo, per sopravvivere, è quello di coltivare il papavero, la marijuana».
La figura di El Chapo, è popolare in Messico: dai costumi di Halloween, alle canzoni popolari – l’equivalente di quelle dei neomelodici con i camorristi – le fughe del leader del cartello di Sinaloa e la sua capacità di guidare tanto a lungo il cartello senza essere ucciso o finire in carcere, ne hanno fatto una specie di mito in certi ambienti.
El Chapo ha riconosciuto che le droghe fanno male, dicendo: «Beh, è una realtà che le droghe distruggono. Purtroppo, come ho detto, dove sono cresciuto non c’era altro modo e non c’è ancora un modo per sopravvivere, non c’è modo di lavorare nella nostra economia per essere in grado di guadagnarsi da vivere».
Guzmán sostiene di non essere un violento: «Guarda, non faccio altro che difendermi, niente di più. Ma si comincia guai? Mai.»
Rispetto ad alcuni cartelli di più recente formazione, in effetti, quello di Sinaloa è più discreto e meno brutale: Los Zetas, ad esempio, hanno seminato il panico e lo hanno fatto in maniera arrogante, sono loro i corpi appesi sui ponti delle autostrade o i video postati in rete delle loro imprese e stragi. Sinaloa tende a occuparsi solo di droga, mentre Los Zetas organizzano ogni sorta di attività criminale.
I morti messicani in questa guerra non dichiarata sono decine di migliaia. L’ultimo episodio clamoroso nel quale la collusione tra narcos e autorità si è manifestata in maniera clamoros è la morte dei 43 studenti a Iguala.