Le foto dell'archivio Magnum ci restituiscono il carattere e la personalità schiva dell'artista svizzero

Alberto Giacometti , da artista, aveva scelto di mettere l’essere umano al centro della propria ricerca. Creando esili sculture dal volto arso che un po’ gli assomigliavano. Anche il fotografo Henri Cartier- Bresson amava presentarsi come un uomo che si occupa quasi esclusivamente dell’uomo, convinto che: «I paesaggi sono eterni, mentre io vado di fretta». Fu così, andando di fretta che riuscì a fare questo scatto “rubato” che ritrae Giacometti sotto la pioggia. A cinquant’anni dalla sua morte, avvenuta l’11 gennaio del 1966,  dopo le sue anti eroiche sculture, niente sembra restituircene il carattere e la personalità schiva più di questa immagine che fa parte dell’archivio Magnum. Così come queste altre immagini che mostrano Giacometti nel suo studio, e come sdoppiato, triplicato nella serie di sculture che come autoritratti fanno di lui uno, nessuno e centomila. L’artista di origini svizzere era nato nel 1901 ed era figlio d’arte. Suo padre, il pittore Giovanni Giacometti riuniva nella casa di Stampa, in Val Bregaglia, gli intellettuali più importanti della  cultura svizzera del tempo.  E questo fu per lui di grande stimolo. Giovanissimo esprimeva già una propria originale poetica nei ritratti dei genitori, del fratello Diego. Come accadrà poi con la moglie Annette e con l’ultima amante, Caroline, Giacometti  cercava di rappresentare  il «mistero di quei volti e della vita riflessa in essi», cercando di «possedere un’apparenza che di continuo sfugge».

E’ questo il filo rosso di ricerca che attraversa tutto il suo lavoro. E che si sviluppa negli anni francesi quando nel 1922 studiava a Parigi con Bourdelle, mentre dominava ancora il cubismo, seppure in forme ormai diventate “tarde”. Parigi significò per lui anche la scoperta dell’Art Nègre al museo etnografico del Trocadéro, frequentato da Picasso e Modigliani attratti dalla inusuale bellezza di sculture africane, fuori dal rigido canone vitruviano e prive di quella marmorea grazia imposta dal neo classicismo. Una amara bellezza, fragile, tormentata è quella che caratterizza tutta l’opera di Giacometti, fra  misteriose ricreazioni dell’ombra della sera, ed esuli sculture appese a un filo che tolgono a Pinocchio tutto il baccano burattinesco, facendone una maschera attonita. Sempre più,  nel trascorrere degli anni, cercherà di superare le barriere fra i generi, attraverso creazioni nate assemblando scultura, pittura e disegno. L’attrazione per il Surrealismo,che aveva conosciuto nel 1930 tramite Cocteau, Noailles e Masson, durò poco: dopo la sua prima personale a New York, Andrè Breton decise di espellere Giacometti dal movimento surrealista apparentemente per la decisione dello scultore svizzero di tornare al “vero” in arte e a questo furono dedicati soprattutto gli anni della guerra trascorsi in Svizzera. Al ritorno a Parigi si avvicina a Sartre e ad altri pensatori esistenzialisti.

Intanto le sue sculture si assottigliano sempre più e lui, nonostante il crescente successo, le numerose mostre in giro per il mondo, diventa sempre più riottoso alle regole sociali del jet set dell’arte internazionale. Come raccontav la scrittrice Grazia Livi in una intervista apparsa su L’Europeo mel 1963 e realizzata nello studio di Giacometti dove c’era solo una branda  circondata da cartacce.

Interpellato sul tema della  solitudine come condizione  dell’uomo contemporaneo, Giacometti rifugge dagli slogan e dalle immagini stereotipate di se stesso che gli assegnano i giornali. «Se un uomo soffre di solitudine – dice – può soffrirne da solo o in mezzo agli altri. E poi la solitudine delle grandi città moderne, per esempio, non è certo peggiore di quella delle antiche città medievali dove gli uomini, di notte, giravano addirittura col coltello in tasca per difendersi». Eppure tutta l’arte contemporanea, l’arte astratta, incalzava l’intervistatrice «sembra proprio rappresentare questa condizione di solitudine dell’uomo, questa rottura di rapporto con la realtà, con la tradizione, con se stesso».

«Secondo me, l’arte astratta non esiste – rispondeva Giacometti -. Io la chiamo “arte concreta”, come Kandinsky. C’è semmai questo: che l’arte di oggi rappresenta la realtà, ma in modo diverso. La scienza, infatti, ci ha dato degli strumenti di conoscenza che hanno sconvolto completamente la nostra visione della realtà. La fotografia, i raggi X, gli apparecchi microscopici, hanno fatto sì che noi potessimo entrare dentro ai segreti stessi della materia: ingrandendoli, deformandoli. Un tempo una testa era una testa, un braccio era un braccio, e attraverso la pittura e la scultura lo si vedeva nella sua totalità, e non c’erano dubbi. Oggi, invece, la fotografia ha dato una visione del mondo tale, e così sufficiente, in apparenza, che ha fatto crollare tutta la pittura di ritratto, ad esempio, e nello stesso tempo ha messo l’artista nella condizione di dover dipingere altre cose, come la sua vita interiore, il suo inconscio, le sue sensazioni».