Avenue Bourguiba è blindata, l’aria è tesa, polizia e militari sono disposti lungo il viale a gruppi da sette, a cento metri gli uni dagli altri. Il ministero dell’Interno e l’ambasciata francese sono protetti da barriere di filo spinato, carri armati e postazioni di tiro dei cecchini. Ogni obiettivo sensibile – il teatro municipale, la cattedrale cristiana, i grandi alberghi e i ristoranti del lungo viale – è presidiato da uomini in divisa, armati con giubbotti antiproiettile consumati e vecchi steyr aug 1, fucili d’assalto di fabbricazione austriaca. In questo silenzio surreale si svolge la vigilia di Capodanno, con i ristoranti aperti e molti camerieri in piedi a vegliare tavoli vuoti. Il coprifuoco non è l’eccezionale sicurezza per l’ultimo dell’anno. Ogni sera, entro le sette, le attività commerciali si spengono e il viale centrale si svuota completamente, restando militarizzato. Avenue Bourguiba è la strada principale della capitale. La via più ricca della Tunisia e il teatro della rivoluzione del 2011. Il 24 novembre scorso, appena dietro questo viale, un kamikaze si è fatto esplodere dentro un bus provocando la morte di dodici uomini della guardia presidenziale.
Sono passati quasi quattro anni dalla fuga di Ben Ali in Arabia Saudita il 14 gennaio 2011 e la Tunisia è oggi considerata l’unico Paese stabilizzato dopo le Primavere arabe che hanno scosso il Nord Africa e il Medio Oriente. Protagonisti della mediazione sono stati da un lato i partiti politici, con la novità dell’ingresso del partito islamico Harakat al-Nahda (Movimento della rinascita) nel processo istituzionale, dall’altro il “Quartetto per il dialogo nazionale” composto da quattro organizzazioni che rappresentano la società civile. A queste è stato assegnato il premio Nobel per la Pace 2015 per il lavoro svolto a sostegno dell’Assemblea Costituente. Nei giorni successivi a Capodanno, li abbiamo incontrati nei loro uffici di Tunisi, per chiedergli del futuro del Paese.
«Io ho la mia lettura sul Nobel che abbiamo preso», spiega Fadhel Mahfoudh, presidente dell’Ordine degli avvocati e membro del Quartetto. «Il Nobel è certamente l’incoraggiamento di un processo democratico, un bel messaggio, ma questo premio non è tra le priorità del popolo tunisino. I cittadini hanno altri problemi, economici e sociali, sono fieri del riconoscimento, ma non riescono a festeggiare in un momento come questo». Secondo un report della Banca mondiale del 2014, il sistema economico esistente sotto Ben Ali non è sostanzialmente cambiato, anzi la crisi con gli anni si è aggravata e settori strategici dell’economia sono rimasti concentrati nelle mani di élite francofone che sorvegliano ogni tentativo reale di liberalizzazione.
Tra le viuzze di sassi della medina di Tunisi, la città vecchia, si ha l’impressione di un Paese impoverito dove si alternano affascinanti edifici antichi a palazzi sventrati, come colpiti da bombe. In un ostello ottocentesco interamente ricoperto di variopinte piastrelle tradizionali, lavorano due ragazzi ventenni: «Dopo la rivoluzione non è cambiato niente, al governo ci sono sempre gli stessi. Noi nei giorni della rivoluzione siamo stati in piazza a rischiare tutto, compresa la vita, ma a cosa serve la libertà se non c’è lavoro, soldi, cultura? Siamo giovani: se non vedremo futuro, faremo un’altra rivoluzione». In un Paese dove il 55% della popolazione con meno di 30 anni, soprattutto i più istruiti, non trova lavoro, aumenta la disaffezione dei giovani verso il sistema e la classe politica.
«Non si possono esercitare le libertà formali senza lavoro», dice Abdessattar Ben Moussa, rappresentate per i diritti umani e anch’egli premio Nobel. «La Tunisia, rispetto ad altri Paesi nordafricani aveva una classe media. Prima erano in molti ad appartenere a questa classe, tra avvocati e medici. Oggi anche loro sono diventati classe povera. È vero, abbiamo fatto la transizione democratica, ma ora serve la transizione economica: se non c’è quella, la democrazia resta fragile».
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