Un aggregato di quartieri accostati gli uni agli altri senza un senso. Comparse numerate sul set di un polpettone storico. E al centro, immutabile, il Vaticano

Roma non è mai stata una metropoli internazionale, lo stesso concetto ampio di mondo le appartiene assai relativamente, retorica di una Hollywood sul Tevere compresa. Roma infatti è innanzitutto un aggregato di quartieri accostati (dai palazzinari) irregolarmente gli uni agli altri, dove, nonostante le “disparità” sociali, c’è comunque il comune denominatore antropologico a tenere ogni cosa insieme, un sentire piccolo borghese, inossidabile, forte come il bostik. Lo stesso sentire cui il fascismo donò un’uniforme, da “capofabbricato”, per cominciare, ma pur sempre un segno distintivo gerarchico. Roma probabilmente non conquisterà mai un respiro internazionale, se è vero che i suoi pensieri non vanno oltre il rione, lo strapaese sebbene monumentale.
Che si tratti poi di una città, anzi, di un “bacillario”, o se preferite un laboratorio politico ottimale per il fiorire della subcultura fascio-qualunquista non c’è che l’imbarazzo della contemplazione dei bar o delle sale-corse di molti suoi quartieri “residenziali”, poco importa se destinati ai primari o piuttosto ai semplici medici o addirittura agli infermieri e ai portantini: questa tripartizione ha un valore metaforico, ma spero restituisca agilmente la percezione diacronica di chi scrive.
Potrà sembrare un dettaglio più o meno insignificante, ma ci sarà pure una ragione profonda se la koinè sub-linguistica nazionale (o se preferite dialettale) che, cominciando dai social network, governa un pensiero assertivo permeato di qualunquismo è proprio il cosiddetto “romanesco”, nella sua forma degradata da trattoria “Cencio La Parolaccia”? Una “lingua” che ha tuttavia la capacità di farsi perfino manifesto politico: ricorderete il “Daje!” che ha accompagnato l’avventura elettorale e le giornate successive micro-epocali di un ex sindaco della città in questione, o sbaglio? Così come, benché alcuni attestino che si tratti di puro italiano presente addirittura nel Tommaseo, il continuo uso “dialettico” dell’espressione “rosicare” (o “rosicone”) nel dibattito politico sia ad ampio sia a minor spettro. Ci sarà insomma una ragione se ogni tentativo di dare vita a una riflessione viene infine costretta ad arrendersi davanti a battute pronunciate con assertività rionale e insieme cosmica?
Per quanto possa sembrare paradossale, il portato profondo del “cinismo” romano si è fatto globale nel linguaggio quotidiano della politica, cancellando così il “discorso” e il metodo.


 

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