Oggi i ministri degli Interni dell’area Schengen si riuniscono ad Amsterdam per discutere se, come e quando introdurre dei limiti alla circolazione di persone all’interno dell’Unione europea. Non è una bella notizia.
Mentre da Berlino e Bruxelles giungono toni allarmati e allarmanti sul rischio di collasso dell’area senza frontiere che è una delle grandi conquiste percepite da tutti dell’Europa unita, i governi sembrano non aver la volontà o la forza politica di affrontare la questione rifugiati in maniera collettiva. La stessa Germania, con Svezia, Francia, Austria, Danimarca e Norvegia (non nell’Unione ma dentro Schengen) ha già reintrodotto controlli alle frontiere.
Secondo Schengen i controlli temporanei alle frontiere possono essere prorogati per un periodo complessivo non superiore a due anni. Perché ciò avvenga, i leader europei devono accettare che «carenze gravi e persistenti» alle frontiere esterne ne mettono a rischio l’esistenza. «Non abbiamo ancora introdotto questo meccanismo … (ma) esiste questa possibilità e la Commissione è pronta a usarla se necessario», ha dichiarato un portavoce dell’esecutivo europeo.
Tra le proposte sul tavolo quella del primo ministro sloveno Miro Cerar, che ha suggerito di chiudere le frontiere a nord della Grecia (escludere insomma Atene da Schengen) per impedire che il flusso in arrivo entri in centro Europa. La proposta ovviamente è bene accolta dai governi ungherese, polacco e della Repubblica Ceca, tra i più aggressivi nel loro furore anti-rifugiati. L’idea è semplice: i rifugiati arrivano in Grecia e la Grecia se ne deve occupare. Il governo greco ha ovviamente bocciato la proposta: «Non è facile per intercettare i richiedenti asilo e non abbiamo intenzione di diventare un cimitero. Non riusciamo a capire che tipo di politica è quella di un Paese che chiude i suoi confini con la Grecia », ha detto il ministro dell’immigrazione greco Ioannis Mouzalas che ha spiegato che non saranno le frontiere chiuse a fermare la gente che fugge dalla guerra. L’Austria ha invece protestato con Atene sostenendo che debba fare di più per controllare le sue frontiere. Sembra di rivivere la vicenda italiana, che per anni ha protestato con l’Europa per gli sbarchi e, a sua volta, è stata accusata di lasciar passare gli immigrati senza registrarli come previsto dal sistema di Dublino.
Italia e Germania vogliono un meccanismo per il quale la reintroduzione dei controlli di frontiera venga concordata a livello europeo e non sia una scelta dei singoli Paesi. Roma chiede anche da tempo una revisione del meccanismo di Dublino, che determina, specie se le frontiere rimangono chiuse, un aggravio sui Paesi di frontiera, che dovrebbero registrare e gestire i richiedenti asilo al loro ingresso. Gli hot spot e il meccanismo di redistribuzione approvato da mesi doveva proprio servire ad alleviare la pressione sulla Grecia e altri Paesi, ma per adesso non ha funzionato. O meglio, non è stato messo in piedi davvero. I rifugiati “redistribuiti” sono circa 350 sui 160mila promessi.
Il coro di premier e politici di alto profilo che nei giorni scorsi hanno lanciato strali contro le frontiere aperte annovera il premier francese Valls che ha spiegato da Davos alla Bbc che senza una più grande capacità europea di proteggere le frontiere esterne «è il progetto di Europa che rischia di naufragare». Il socialista sostiene che occorra agire in fretta, trovare risorse e mezzi. Quel che a oggi, nonostante gli impegni presi a varie mandate (hotspot, redistribuzione dei rifugiati), non è all’ordine del giorno. Il ministro delle Finanze tedesco Schauble, che ha parlato di più impegno in Medio Oriente e di una politica coordinata con la Russia per la Siria, un cambio di strategia e l’assunzione di un ruolo più importante in politica estera da parte tedesca. Il potente ministro tedesco propone anche di tagliare i benefici di welfare per i rifugiati per disincentivare gli arrivi.
Chi non è d’accordo con questa tesi è il nuovo Alto commissario per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, che ha sostenuto che l’Europa, se lavorasse assieme e in maniera coordinata potrebbe riuscire a fare di più senza entrare in crisi.
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Norvegia e Gran Bretagna: “piccole” violazioni dei diritti umani
Due crisi locali segnalano invece una situazione per gli essere umani in fuga dalla guerra che rimane catastrofica. La Norvegia ha deciso di deportare centinaia di richiedenti asilo verso la Russia, perché sostengono a Oslo, il Paese è un posto sicuro dove inviare rifugiati. La scelta ha generato proteste, specie dopo la segnalazione del caso di uno yemenita che ha cercato di richiedere asilo ed è finito arrestato, multato per 5mila rubli ed espulso. Ha dieci giorni per fare ricorso ma i casi segnalati di persone rispedite a casa, anche in Siria, nonostante i pericoli, sono molti. Società civile e chiese hanno protestato contro il governo, che è in grave imbarazzo.
In Gran Bretagna, invece, una società privata che gestisce un centro di accoglienza a Cardiff ha costretto i suoi ospiti a vestire un braccialetto rosso identificativo – senza il quale non si veniva ammessi alla distribuzione dei pasti. L’essere identificati per strada come rifugiati non piaceva alle persone ospiti del centro. E dopo che la notizia è apparsa sui media e un’inchiesta è stata aperta, il centro ha fatto marcia indietro. Pochi giorni fa a Middlesbrough era successo che alcune case che ospitavano rifugiati, le cui porte erano state dipinte di rosso, erano state oggetto di lanci di pietre e uova.
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